La Strabatenza segreta dell’ VIII Brigata Garibaldi

Terzo appuntamento con le nostre “camminate di fantasia tra antiche parrocchie fantasma” alla scoperta di un mondo perduto, un universo andato che ormai ci pare lontanissimo e che speriamo di rendervi il più prossimo possibile grazie al racconto che segue.
Nelle precedenti due camminate vi avevamo condotto rispettivamente a Rio Salso e Rio Petroso, due parrocchie povere e non particolarmente popolose, a metà strada tra le Valli del Savio e del Bidente. Oggi lo svalicamento è compiuto e ci troviamo nella Valle del Bidentino (uno dei rami dai quali ha origine il Bidente) sempre comunque all’interno del Comune di Bagno di Romagna.
Questa camminata ci darà modo di conoscere la Parrocchia di Strabatenza: una tra le più popolose tra quelle che vi faremo conoscere ed anche una tra le più “ricche” e produttive, data l’abbondanza di zone pianeggianti che ben si prestavano all’agricoltura ed all’allevamento. A differenza di altre comunità limitrofe, l’esodo qui si protrasse fino agli anni ’70 e fu in buona parte “forzato” (almeno così mi hanno riferito alcuni degli ex abitanti con i quali ho avuto la fortuna/piacere di parlare).
Come consuetudine ci ritroviamo al parcheggio del Cimitero di San Piero in Bagno e partiamo in auto alla volta di Santa Sofia. Poche curve prima di arrivarvi, voltiamo a sinistra seguendo le indicazioni per Poggio alla Lastra dove ci fermiamo qualche minuto per sgranchirci le gambe. Qui ci starebbe bene la scritta: “Hic sunt leones” o meglio “lupos”; in questo piccolo paesello (oggi semideserto ma in passato popoloso sin dai tempi in cui fu Comune sotto la dominazione fiorentina, “fra i più lontani dal centro del capitanato” (cit.1)) varchiamo le colonne d’Ercole e ci immergiamo nella “valle del silenzio” di Serafiniana memoria.
Proseguiamo in auto sulla strada principale che si fa sterrata (immancabile la pausa al Poggetto per riempire le borracce presso la fonte freschissima). Superiamo le famose pozze “del Poggio” (bellissime e molto conosciute, soprattutto negli ultimi anni; alcune macchine di “villeggianti cittadini” sono già sul posto!) ed avanti risalendo il corso del fiume. Arriviamo ad un grosso bivio presso l’area attrezzata di Ponte del Faggio (zona Bottega) e qui parcheggiamo le auto. Respiriamo a pieni polmoni l’aria fresca e frizzante di questa mattinata estiva mentre allacciamo gli scarponi e controlliamo di aver caricato a dovere lo zaino… ed ecco la prima (tremenda!) brutta notizia della giornata: mi sono dimenticato il vino a casa.
Tuttavia mai disperare, una guida AIGAE che si rispetti ha sempre un piano B di riserva… Inizio a camminare in salita lungo l’ampia strada che in poco mi porta a Trappisa di Sotto. La casa è stata di recente assegnata al gruppo “Dos Dias” vincitore del bando provinciale di affidamento. I ragazzi stanno lavorando per rendere quanto prima agibile il rifugio. Mi fermo a chiacchierare con loro (alcuni sono amici di vecchia data) ed alla fine due belle bottiglie di rosso riesco a rimediarle.
Salutati i ragazzi, riprendo a camminare fino a superare Ca’ della Vigna… La toponomastica è chiara: il nome ricorda i tempi andati, prima della filossera, quando questi terreni producevano (a detta dei locali) un ottimo sangiovese “quasi frizzante e facile a bersi, dalla vigorosa gradazione” (cit.2). Mi guardo intorno immaginando vigne a perdita d’occhio, invece degli odierni rimboschimenti a conifere, appoggiandomi alla recinzione per asciugare il sudore. Un raglio improvviso alle mie spalle mi fa trasalire: voltandomi di scatto vedo il grosso muso di un asino a pochi centimetri da me. L’asino mi guarda per un po’ in silenzio, dopodichè riprende il “suo discorso ragliante”; credo di aver capito cosa vuol dirmi e lo traduco a grosse linee: “pore baibe cos tu spetarai ad aprì el vin che t’hai invec ed sognà li viti”? Ha proprio ragione ed in un attimo apro la prima bottiglia che i ragazzi di Trappisa mi hanno regalato.
Continuo a camminare con il pensiero ancora rivolto ai vigneti e non mi accorgo di essere già arrivato nel cuore di quella che era la popolosa parrocchia di Strbatenza.
Purtroppo, ai nostri giorni, resta poco di quello che doveva essere un magnifico borgo, spazzato via per sempre dalla “dinamite impietosa e stupida del Corpo Forestale dello Stato” (cit.3).
Rimane la chiesa, costruita negli anni ’20 del novecento a seguito dei grossi terremoti che investirono la valle, la bella casa Zuccherelli, la scuola (ancora per poco…) ed il silente cimitero.
Una bella targa, vicino ad una fonte dove riempio la borraccia, ricorda gli eroici Partigiani dell’VIII Brigata Garibaldi che qui a Strabatenza trovarono riparo nel Marzo 1944, al termine dell’esperienza del distretto Partigiano di Corniolo.
Di recente inaugurazione è il “Sentiero del Partigiano Janosik” (dedicato a Giorgio Ceredi, partigiano e commissario politico di uno dei distaccamenti che componevano la brigata) che in parte percorreremo.
Prima però di affrontare il suddetto sentiero, avanziamo lungo la strada forestale fino al cimitero; appoggio lo zaino al cancello ed entro: cerco di riconoscere tra le erbacce i nomi incisi nelle poche lapidi ancora presenti ed immagino di calarmi nei panni di un Edgar Lee Masters in salsa tosco-romagnola. Mi figuro gli spiriti di queste povere genti destarsi dal loro torpore eterno e raccontarmi le loro vicissitudini… mi perdo in questi viaggi…
Il sole alto in cielo mi desta dalle mie fantasie e trovo riparo nella piccola cripta del cimitero dove mi fermo a riposare, riempiendomi il bicchiere di vino per brindare alla salute dei miei oratori immaginari che “dormono, dormono sulla collina” (cit.4).
Continuo a salire, superando le case di Ca’ Boscherini (recentemente ristrutturata) ed il Vinco. Qui il sentiero si fa più labile proseguendo tra fitti ginepri e ginestre in fiore dal profumo inebriante. Arriviamo ad una delle case a mio avviso più impossibili della zona: Ripastretta (una leggenda parla di un miracolo qui avvenuto secoli orsono ad opera di un Santo che vi si trovò a transitare… storia che vi racconterò in loco, appena sarà possibile tornarvi assieme!)
Siamo al confine con l’attigua parrocchia di Casanova dell’Alpe e per non svalicare decidiamo di scendere sulla sinistra, seguendo una traccia zigzagante che in breve tempo ci accompagna ad uno spiazzo rimboschito. Al centro, quasi uscito dalle fiabe, sta un rudere coperto di muschi (i Fondi); accanto un grazioso ponticello in pietra supera il fosso. Mi pare di essere finito nel mondo delle fate ed attendo che qualche esserino magico faccia capolino da dietro qualche pietra. Nell’attesa affetto formaggio e verso il vino.
Abbiamo incrociato il Sentiero del Partigiano (indicato da una stella rossa e non dalla abituale segnaletica CAI bianca e rossa) di cui prima vi abbiamo parlato; lo prendiamo in salita fino a giungere ad una bella e panoramica maestà in pietra risalente (o almeno datata) al 1886.
Il tracciato entra in uno dei suoi punti più scoperti ed il sole si fa sentire; una fune di acciaio posizionata di recente (ringraziamo chiunque sia stato a metterla!) ci aiuta nel passaggio.
Giungiamo così al rudere della Casaccia, pochi resti pericolanti che però ci danno bene l’idea di quanto la casa fosse grande. Si vedono ancora i resti di quella che immagino essere stata la cucina: alcune mensole scavate nella parete, una sorta di acquaio in arenaria ed un bel camino con ancora incise le iniziali di chi lo costruì. La zona è riparata e suggerirebbe di fermarsi più a lungo… il caldo però mi fa prendere la decisione di camminare altri dieci minuti fino ad arrivare alla bella cascata lungo il fosso del Palaino, dove finalmente posso togliere gli scarponi ed immergere i pedi al fresco.
Pane, salame e formaggio (alla faccia delle barrette energetiche!) accompagnano la seconda bottiglia della giornata che sboccio e verso in abbondanza. Mi sdraio e mi appisolo per qualche decina di minuti.
Una libellula di un blu metallico mi sfiora il viso e mi sveglia, immagino voglia dirmi di non indugiare troppo e che da vedere c’è ancora molto. Mi asciugo e riprendo a camminare poche centinaia di metri per ammirare i resti di Ca’ del Tosco. Mi ricordo (saranno passati almeno 10 anni) di una giornata tempestosa quando con l’amico Claudio, compagno di tanti trekking, ci rifugiammo nello stalletto purtroppo ora crollato. Al pari della Casaccia, doveva trattarsi di una grossa costruzione capace di ospitare famiglie alquanto numerose. Una lapide attira la mia attenzione, si tratta del ricordo di due bimbe decedute per cause legate alla guerra che, ancora anni dopo la sua conclusione, reclamava il suo tributo di sangue.
La casa successiva che incontriamo è il Palaino, della quale, purtroppo, rimane ben poco. (al pari delle altre case incontrate in precedenza in questa stretta vallecola, fu abbandonata attorno alla metà degli anni ’50, motivo che spiega l’avanzato stato di rudere).
Il sentiero sale fino ad un colle panoramico dove si domina la valle del Bidentino per poi attraversare un tratto franato ed incrociare il sentiero CAI che scende da Casanova dell’Alpe ai piedi dei ruderi del Trogo (una maestà in pietra ed il bel forno restaurato guardano quella che doveva essere una delle case più possenti della zona, oggi rudere).
Torniamo sui nostri passi ed in discesa, sotto un sole battente che non ci concede respiro, superiamo le case restaurate delle Cortine (di Sopra e di Sotto) per arrivare al Mulino delle Cortine (benchè al momento chiuso, il complesso merita una visita anche se solo esterna; ci auguriamo che possa risorgere e tornare presto allo splendore ormai perso da tempo).
Alla pozza presso il mulino mi attende una bella sorpresa: i ragazzi di Trappisa, finiti i lavori della giornata, hanno deciso di scendere al fiume per rinfrescarsi. Un tuffo tira l’altro e presto il sole si fa basso… Decidiamo così di rientrare a Trappisa per una spaghettata tutti assieme, il vino non manca e nell’attesa che l’acqua bolla mi faccio un giro ad ammirare i lavori eseguiti. La casa è ormai ultimata e splendida, pronta ad ospitare i Trekkabbestia al completo appena ci daranno il via e questa quarantena avrà termine.

NOTE:
cit. 1 : Alpe Appennina n.01, Monti Editore, 2019
cit. 2 e 3 :Claudio Bignami (a cura di), Il Popolo di Strabatenza, 1991
cit. 4 : Fabrizio De Andrè , Non al denaro non all’amore né al cielo (1971)

La Valle delle Petrose

Proseguiamo il nostro viaggio virtuale attraverso antiche parrocchie, spostandoci nell’abitato attiguo a quello attraversato durante il primo dei nostri viaggi (Rio Salso), ovvero Rio Petroso. Al pari di Rio Salso, la parrocchia di Rio Petroso, era una tra le meno popolose del Comune di Bagno di Romagna e fu tra le prime a subire l’esodo massiccio di popolazione finendo per essere, già all’inizio degli anni ’60, un insediamento praticamente fantasma. Ci diamo appuntamento al parcheggio del cimitero di San Piero per le 8.00 (in realtà, il vero punto di incontro è il Bar Italia dove Simonetta ci dà il buon giorno con un bel caffè corretto). Di qui partiamo con le auto, direzione Santa Sofia, e parcheggiamo nello spiazzo antistante il monumento ai martiri del Carnaio. Un saluto a questi innocenti qui trucidati dai nazisti e dai loro servi repubblichini in un lontano luglio del ’44 è d’obbligo, soprattutto in questo triste periodo storico dove il becero revisionismo rialza la testa e le fogne si sono aperte. Iniziamo a camminare sulla larga strada che si fa presto sterrata fino ad arrivare al Paretaio, ultima casa abitata della zona; ignoriamo l’invitante deviazione a sinistra che ci condurrebbe a Monte Piano, optando per il sentiero di destra che ci porta ad un bellissimo spiazzo panoramico. Davanti a noi possiamo osservare il caratteristico Monte Cuccolo ed ai suoi piedi buona parte della vallata di Rio Petroso. Fin da subito appare chiara l’asperità di questo territorio; il controcrinale galestrato su cui poggia Rio Petroso, ben delineato dal fosso della Val Cupa da una parte e da quello delle Petrose dall’altra, dà sfoggio del suo inconfondibile “aspetto lunare” fatto di marne esposte alla tramontana e modellate dalle intemperie e dai vari agenti atmosferici. Un paesaggio che a noi appare magnifico, ma che gli abitati di questi luoghi non potevano che reputare loro avverso ed inospitale, capace di poter offrire, nei migliori dei casi, spazi appena sufficienti ad una magra agricoltura volta all’autosostentamento. La gente viveva (o meglio sopravviveva) grazie all’allevamento ed a lavori legati al bosco; un’esistenza sicuramente non facile, fatta di rinunce e privazioni; non è difficile capire come lo sviluppo post bellico della nazione sia parso a queste genti come un’opportunità troppo ghiotta per riscattarsi ed in breve “la fuga” dalla terra natia sia stata inarrestabile. Tuttavia, benché arido ed inospitale, esistevano sul territorio ben due mulini (uno per ognuno dei due fossi principali prima citati), la popolazione pre-esodo superava sempre le cento anime (con un picco nel 1932) distribuita nei numerosi poderi sparsi. Il caldo di oggi ci ha suggerito di lasciare la fiaschetta di grappa a casa, optando per un più dissetante liquore alle erbe che assaggiamo prima di iniziare a scendere lungo un crinaletto tra marne erose e vetusti ginepri.
In breve raggiungiamo il primo rudere della lunga lista che ci attende: la Casetta; numerosi ailanti circondano i pochi resti della casa; si intuisce ancora la sua stazza non indifferente dalla grande facciata, davanti alla quale è posta la letamaia.
Proseguiamo a mezza costa lungo un sentiero appena percettibile, stando attenti a non seguire le tante tracce degli ungulati, per arrivare al rudere dei Prati (benchè il nome possa suggerire diversamente, non ho antenati in zona: una sorsata di liquore però la faccio ugualmente alla salute dell’omonimia!).
Dalla casa scendiamo verso il fosso che, data la scarsità d’acqua, guadiamo senza problemi ed in breve siamo ai pochi resti del Calcinaio; il rudere, al pari di molti altri poderi della zona, è documentato almeno dal XIV secolo, quando la fine del periodo feudale ed il successivo appoderamento toccò anche questa remota valle appenninica. Un tratto in salita ed eccoci finalmente a Buiolo, due grossi edifici testimoniano l’esistenza del podere, adagiato sul limitare di una delle poche zone abbastanza pianeggianti della zona. Possiamo immaginarlo come uno dei poderi più redditizi della zona…non a caso fu uno degli ultimissimi ad essere abbandonato. Ci fermiamo a riposare sotto la grossa quercia a mangiare qualche fico, preso dall’albero affianco, accompagnandoli con un po’ di liquore alle erbe.
Abbiamo incontrato nuovamente i segni bianco/rossi del CAI e li seguiamo affrontando uno degli strappi più impegnativi di oggi che in un chilometrino ci portano ai ruderi, nascosti da rovi e rampicanti, di Monte alle Vigne (la toponomastica probabilmente suggerisce l’antica vocazione di queste terre, benchè al moderno camminatore possa sembrare impossibile… la filossera era al tempo lungi dal venire!).
Qui il sentiero è esposto a nord e si fa più fresco; la presenza di alcuni timidi faggi ci suggerisce di rallentare il passo e di godere della frescura e del venticello che soffia.
Continuiamo a camminare fino ad un tratto aperto dove, nascosto dalla vegetazione, si intuisce una casa… siamo a Pian dei Cogi (Piangoce sulle mappe); proseguendo in quota arriveremmo a Rio Salso (ma ci siamo appena stati! Ricordate la scorsa camminata?) quindi scendiamo lungo il prato e, superato un modesto fosso contornato da bellissimi salici e pioppi, arriviamo ad un altro podere. Le ultime mappe escursionistiche riportano il nome Quadalto, tuttavia la contrazione dalla quale il nome deriva appare evidente (e ve la racconterò dal vivo quando potremo tornarvi assieme). Il sentiero si fa esposto con il sole alto sopra di noi che in “inizia a picchiare”…e la panza a brontolare…
Lasciamo così il sentiero segnato di cresta per una deviazione sulla destra che in breve ci porta a Vaiuccio. La casa è spettrale, con le mura perimetrali in buona parte ancora integre ma con i soffitti ed i solai crollati da tempo. Il camino della cucina appeso alla parete sospeso come per magia nel vuoto mi appare oltremodo affascinante; mi soffermo a pensare ai parchi pasti che avrà cucinato ed ai tanti legni freschi che avrà consumato, inondando la stanza di fumo nelle lunghe e tediose notti invernali, quando la numerosa famiglia Mosconi (ultimi abitanti) si radunava al completo sull’ aròla per ascoltare le storie del nonno. Penso a mio nonno ed a tutti i suoi racconti mentre affetto salame e stappo il vino.
Riparto in discesa verso il fosso e poi in salita, il sentiero compie un’ampia curva fino a scendere al fosso dove, incassato sotto un’alta rupe, è sito il piccolo Mulino delle Petrose (dai tanti nomignoli che gli sono stati affibbiati, e che vi racconteremo alla prima escursione, si capisce bene il fatto che non fosse il posto più ambito della zona. Per secoli fu l’unico mulino della comunità “dato all’incanto” per poi essere privatizzato alla fine del ‘700 a seguito dei decreti leopoldini). Come vi dicevo ho una passione speciale per i mulini (veri e propri cuori pulsanti di queste comunità). Una storia ambientata tra le due guerre (se ben ricordo) raccontatami da uno degli ultimi abitanti della valle, parla di una grande nevicata che bloccò la numerosa famiglia al mulino e del loro “miracoloso” salvataggio… appena torneremo assieme vi racconterò anche questa storia!
Saliamo risalendo l’altra sponda arrampicandoci lungo la greppa galestrata fino a recuperare la traccia che ci conduce alla Rocchetella. Ci fermiamo alcuni minuti sull’aia della casa per riposare, il caldo si fa sentire e il sudore non si placa. Andiamo avanti e superato un piccolo cancello (richiudete sempre!) incrociamo il sentiero CAI. Per chiudere l’anello dovremmo girare a destra ma il caldo ci consiglia un allungo ed inforchiamo quindi la sinistra. Una bella maestà (la cui costruzione è legata ad una delle tante storie di demoni e diavoli!) ci preannuncia il fantastico borgo di Ca’ Morelli. Qui merita fermarsi per ammiralo nella sua interezza… Un magnifico insediamento, costituito da più case che si affacciano sull’aia comune; dispiacere e rabbia nei confronti chi di dovere non ne ha impedito il crollo… per fortuna è rimasto un sorso di liquore che mi aiuta a distrarmi.
Pochi passi ancora ed eccoci al fiume! Un massiccio ponte di pietra con un alto arco lo supera, permettendo di arrivare nella strada bianca che proviene da Poggio alla Lastra. Nei fine settimana estivi la zona è molto frequentata dai tanti cittadini in fuga dalla caldana; fortunatamente non c’è anima viva ed un tuffo rinfrescante non ce lo cava nessuno. L’acqua fresca del Bidentino è un vero toccasana e vi indugiamo a lungo accompagnati dal coro delle numerosissime cicale.
Ritorniamo sui nostri passi, ma questa volta in salita…e che salita! Raggiungiamo i resti della Rocchetta, dopodichè lasciamo il sentiero ed in ripida tracci arriviamo alla maestà panoramica della Rocchetta (sistemata di recente con dubbio gusto, offre un panorama incredibile sulla nostra valle). Ci sediamo a riposare e tiriamo fuori dallo zaino vino e ciambella, che divoriamo in pochi bocconi (dicono che il caldo tolga la fame…mah, sinceramente a me la mette!)
Superato il monte delle Petrose (quando si dice la fantasia al potere: Rio Petroso, Mulino delle Petrose, Case Petrose, Fosso delle Petrose, Monte delle Petrose, Maestà delle Petrose…) il sentiero entra nel suo tratto più spettacolare: siamo nel tratto delle marne lunari! La visuale è superba e si avanza sotto il sole battente ignorando le deviazioni per i due mulini fino ad una grossa casa che preannuncia l’arrivo al centro della Parrocchia con la scuola e la chiesa di San Biagio. Il bel campanile a vela è crollato alcuni anni fa, tuttavia la chiesa è ancora affascinante con la bella nicchia pitturata di azzurro. In primavera, nella scarpata dietro alla chiesa, le giunchiglie in fiore fanno riaffiorare in me ricordi liceali legati alla poesia di Wordsworth. Mi stupisco da solo delle mie reminiscenze che si meriterebbero un bel sorso di qualcosa… cerca cerca nello zaino ma ho esaurito tutto, acqua a parte, e mi tocca accontentarmi di questa.
Il sentiero si è trasformato in una larga strada che in salita arriva al piccolo cimitero di Rio Petroso, costruito negli ultimi anni del 1800; penso alla fatica di quelli che accompagnavano fin quassù i propri defunti, ma era gente abituata alla fatica e sicuramente non era questo a spaventarli. Personalmente sono stanco, il sole è lontano e non picchia più come alcune ore prima. In breve raggiungo il punto panoramico da dove mi sono affacciato questa mattina ad inizio giro e mi riposo.
Sono proprio soddisfatto del mio trekking e spero lo siate anche voi! Mi perdonerete alcuni sconfinamenti nell’adiacente parrocchia di Poggio alla Lastra ma con questo caldo un tuffo ci stava proprio!

Rio Salso, la parrocchia sconosciuta

Iniziamo il nostro “viaggio ideale” da una delle parrocchie meno conosciute del Comune di Bagno di Romagna: Rio Salso. Dalla piazza centrale del paese di San Piero in Bagno (piazza Salvador Allende) prendiamo l’auto e ci spostiamo verso “Somalborg”, uno dei più antichi rioni di San Piero (notare la bella chiesina seicentesca di San Giovanni). Si prosegue fino a superare il ponte sul Rio; qui finisce San Piero “città” ed inizia la campagna… Una strada tortuosa si inerpica lungo il monte seguendo le indicazioni per “Paganico” (piccola frazione del nostro comune, che tuttavia non dobbiamo raggiungere tenendo la destra al bivio). Arriviamo ad una bella casa con stalla (le Vetrice) dell’amico e compagno di tante escursioni Claudio Nigi; qui termina la strada asfaltata e si prosegue su strada bianca ghiaiata… Un simpatico cagnolino (o cagnolina…non abbiamo controllato!) si unisce a noi. In compagnia del nostro nuovo amico proseguiamo lungo la carrabile che a tratti offre bellissimi panorami in direzione del monte Comero. Superiamo Fontabate, fino a qualche anno fa locanda, ed in breve arriviamo alla vetta dove due sbarre impediscono alle auto di proseguire. Allacciamo gli scarponi e ci mettiamo in cammino prendendo il largo sentiero di sinistra che abbandoniamo presto in favore di una larga pista che si stacca in discesa alla nostra destra. Stiamo già camminando da almeno 5 minuti, è ora di una pausa…con la scusa di allacciare meglio lo scarpone lento, appoggiamo lo zaino a terra tirando fuori la piccola fiaschetta di grappa per il primo sorso della giornata. Il panorama che si gode da questo punto è fantastico, davanti a noi si ammira l’intera vallata di Rio Salso, una parrocchia tra le meno popolose tra quelle che vi porteremo a conoscere in queste settimane. L’inospitalità di questa remota plaga appenninica (incassata tra i monti Cocleto, Riccio e Castelluccio) è intuibile a primo acchito: Rio Salso fu tra le prime parrocchie ed essere abbandonate dal massiccio esodo rurale del secondo dopoguerra. Se in altre zone l’esodo si protrasse fino ai primi anni ’70, Rio Salso all’inizio “dei favolosi anni ’60” era già una parrocchia fantasma o lo sarebbe divenuta a breve (l’ultimo parroco residente, Don Romano Serafini, partì nell’Ottobre del ’62… i suoi ricordi sono affidati alle pagine del libro che lui stesso scrisse, poche pagine capaci di darci la struggente immagine di una Rio Salso ormai deserta). Riprendiamo a scendere lungo la strada che si fa mano a mano più infrascata; piantate di ontani fittonano le scarpate alla nostra destra, mentre sul terreno abbondano le impronte dei tanti ungulati qui presenti. Arriviamo così alla prima casa: la Vastura (Valcitura sulle carte), l’edificio è magnifico ed ancora in discrete condizioni, le stalle con bellissimi archi meritano una pausa… ed una gonzata di grappa alla memoria di quegli abili mastri scalpellini che li costruirono. La zona è talmente bella che verrebbe voglia di fermarsi qui… ma il nostro amico a quattro zampe ci chiama dal pioppo poco più avanti, invitandoci a proseguire… Un altro chilometrino circa ed eccoci a Tasnaia (Tassinaia), i cui ruderi raccontano un episodio di cronaca nera consumatosi quasi un secolo fa, in un freddo febbraio… C’è chi dice che tra queste poche pietre si aggiri ancora il fantasma dello sventurato sposo… Un po’ per scaramanzia tiriamo fuori la grappa e brindiamo alla salute della povera anima del giovane! Il sentiero qui si fa più intricato, chiuso in parte da piante di ginepro e prugnolo selvatico che sbucazzano le gambe e le braccia; non ce ne curiamo più di tanto e finalmente usciamo allo scoperto in una radura con un piccolo fosso in piena da guadare ed in breve arriviamo al nucleo di Pian della Noce. Fino a pochi lustri orsono la casa principale dava sfoggio della propria magnificenza ed un grande camino poteva essere acceso per riscaldarsi. I ricordi fluttuano nella mia mente… un brindisi ai tempi andati è d’obbligo prima di ripartire confortati da una piccola maestà che ci indica il cammino. Lasciamo la traccia principale per dirigerci al vecchio mulino (ho sempre avuto una passione per i mulini, immaginandoli come i cuori pulsanti di queste comunità: quando il ritrecine del mulino ha smesso di girare, poco dopo la comunità è morta…come se il cuore avesse smesso di pulsare). La pioggia mista a neve nel frattempo si è fatta più violenta e l’orologio della mia panza dice che il mezzodì è già passato da un pezzo… Nel mondo ci sono tante gioie, ed ognuno di voi avrà le sue… datemi pure del poro sciagurato, ma per me affettare salame e sbocciare del rosso nel carcerario di un mulino abbandonato quasi settant’ anni fa, o giù di lì, è tanta roba! Sarà l’emozione datami dal mulino, oppure il vino (la bottiglia aperta non poteva mica essere richiusa…) ma inizio ad avere caldo; per fortuna il fosso in piena mi costringe a togliere gli scarponi per guadare…in pochi istanti la temperatura corporea ritorna come per magia a livelli ottimali! Un altro guado poco più avanti ci permette di ritornare in breve sul sentiero principale nei dintorni di Val d’Acero, altra bella casa della quale si intuiscono ancora i caratteristici tetti spioventi. Vorremo fermarci ma dinnanzi a noi si vede già il severo campanile a vela della chiesa di san Salvatore che ci chiama a sé; le campane non sono più in sede da un pezzo, ma con un po’di immaginazione non è difficile tornare indietro di qualche decennio, quando nelle afose domeniche estive, il loro scampanare chiamava a raccolta i fedeli che si accalcavano sul sagrato della chiesa, contendendosi l’ombra che la già allora l’ anziana quercia proiettava all’intorno. Scendiamo ed in poco tempo arriviamo nell’aia dove finalmente incontriamo alcuni edifici in buone condizioni: si tratta della Casa Nuova e del Palazzo Giannelli, ovvero il centro della parrocchia. Il grande forno ci offre riparo, qui mi fermo alcuni minuti per asciugarmi e per un pezzetto di cioccolata accompagnata da un sorso di grappa….la fiaschetta “piange”… siamo agli sgoccioli… anche il mio fedele amico a quattro zampe che mi segue dalla partenza si lamenta, in effetti non ha mangiato nulla… e va beh, un pezzetto di cioccolata la do anche a lui… si lo so che la cioccolata fa male ai cani ma che credete che una bottiglia di vino ed una fiaschetta di grappa facciano bene ai cristiani?… comunque lui pare apprezzare… Ripartiamo in salita girando in breve a sinistra per andare a porgere un saluto nell’unico posto dove ancor oggi risiedono i risalsini: il cimitero. Della costruzione databile fine ‘800 rimane poco… ma una prece alla memoria di chi qui riposa ci scappa ugualmente. Rientriamo sui nostri passi sotto la pioggia battente che nel frattempo si è fatta neve abbondante, optando per il comodo, anche se un po’ noioso, stradone bianco che in alcuni chilometri ci riporta alla macchina. Superiamo i ruderi della Villa della quale ancora si intuisce la grandezza ed il cui nome riporta alla mente fasti ormai perduti; Frassineta, bella casa restaurata, ed infine sfioriamo i Sabiun (Sabbioni) edificio molto particolare e suggestivo che occhieggia alcune decine di metri in basso a destra sotto di noi. Giungiamo così al parcheggio; è il momento di salutare il nostro compagno di escursione pelosetto e di dare l’arrivederci al popolo di Rio Salso… e quale miglior commiato possibile se non quello di don Serafini al quale cediamo la parola: “Le nevicate erano abbondanti e bloccavano tutto. La vita si paralizzava. Il silenzio dominava la valle. Solo i camini fumanti indicavano la presenza umana […] dal punto di vista spirituale ero soddisfatto della comunità; ma c’era un problema che assillava l’anima: lo SPOPOLAMENTO [mi venivano a salutare; facevo loro gli auguri per la nuova sistemazione, ma era triste vederli partire con muli o cavalli carichi di masserizie, sedie, pentole e casse Pareva che partisse, un po’ alla volta, il proprio cuore. Così, dopo qualche mese, quelle case mostravano l’erba sulle soglie, le porte spalancate, le finestre aperte, come nudi teschi, residui di una vita che fu. Rio Salso era ormai un villaggio completamente abbandonato; perfino il grande palazzo padronale dei Giannelli era vuoto. Solo la chiesa era ancora funzionante per le famiglie rimaste nella zona. Talvolta mi affacciavo sulla soglia di qualche abitazione, contemplavo le cose rimaste: qualche rudimentale giocattolo, il grande focolare annerito, qualche vestito stracciato. E meditavo. Ecco che cosa resta dell’uomo: fatiche, amori, sogni… poi il tempo tutto annienta e livella, come un vento che cancella le orme sulla sabbia […] comprendevo che piano, piano, in due o tre anni la parrocchia si sarebbe esaurita.”

In viaggio con la fantasia tra antiche parrocchie perdute

“La quarantena” forzata alla quale siamo sottoposti da alcuni giorni ci impedisce di godere delle meraviglie che ci circondano; le nostre amate passeggiate all’aria aperta non sono possibili e la situazione irreale che si respira non fa che peggiorare tutto. Tuttavia, benché obbligati fisicamente a non muoverci dalle nostre case, nulla ci vieta di far viaggiare quella parte di noi che niente e nessuno può fermare, i cui viaggi fortunatamente non comportano nessun rischio né per se stessi, né tantomeno per la comunità. Ci riferiamo alla nostra mente, serbatoio infinito da cui troppo spesso dimentichiamo di attingere, rifuggendo i tanti stimoli e “voli pindarici” che a torto associamo al mondo dei bambini, bollando di immaturità quanti invece conservano ancora la capacità di lasciarsi trascinare da queste suggestioni. Vi invitiamo quindi a viaggiare con noi, aprendo le porte alla fantasia, le cui briglie devono essere sciolte e per la quale non esiste quarantena! Nei prossimi giorni vi condurremo in un lungo percorso attraverso le nostre montagne, parrocchia dopo parrocchia, lungo antiche mulattiere consunte dai passi perduti dei tanti uomini e donne che non fecero la Storia, ma le cui  microstorie sono oggi un bagaglio del quale personalmente amo farmi carico, una sorta di “dulce pondus” che vorrei condividere con voi. Partendo dal centro di San Piero in Bagno, andremo via via allontanandoci in direzione del Parco Nazionale, fino a guadagnare “l’Alpe” con i suoi tanti segreti che vi andremo narrando.