LA ROMAGNA TOSCANA, ESCURSIONI a KM ZERO !

Fino a cento anni fa i comuni ricadenti oggigiorno nel versante romagnolo del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, ed altri ad essi limitrofi, facevano parte della cosiddetta Romagna toscana o Romagna fiorentina. Questi territori erano entrati nell’orbita Fiorentina negli anni a cavallo tra il XIV ed il XV secolo ed avevano seguito le vicissitudini di Firenze: dalla Repubblica ai Medici, per poi passare ai Granduchi asburgici della casata Lorena e confluire infine nel neo costituito Regno d’Italia, rimanendo tuttavia ancora terra toscana. Fu proprio nel Marzo 1923 che ben 13 Comuni furono “spostati” in Romagna… E noi, a distanza di un secolo tondo tondo, vi porteremo a conoscerne ben 9, con altrettante escursioni con partenza-arrivo direttamente da questi borghi.

Si tratta di  un PROGETTO ESCURSIONISTICO innovativo, lontano dalle classiche mete escursionistiche (e, almeno per noi, particolarmente affascinante anche per questo!). Vi proponiamo percorsi dove di rado si incontrano escursionisti e dove non troveremo la maestosità del Parco Nazionale, bensì un territorio collinare o premontano dove tuttavia non mancheranno le meraviglie sia storiche quanto naturalistiche, accompagnate da tanti nostri racconti, che ci auguriamo possano colpire i vostri interessi e la vostra attenzione.

SOSPENSIONE PROGRAMMAZIONE ESCURSIONISTICA

A CAUSA DI PROBLEMI FISICI SIAMO COSTRETTI AD ANNULLARE SINE DIE IL NOSTRO CELENDARIO ESCURSIONISTICO.

CI AUGURIAMO DI VEDERVI PRESTO; VI RINGRAZIAMO PER LA VICINANZA, LA STIMA E L’AFFETTO CHE CI AVETE DIMOSTRATO FINO AD ORA E CHE STATE CONTINUANDO A DIMOSTRARCI IN QUESTO PARTICOLRE MOMENTO.

PRIMAVERE di BELLEZZA

Questa primavera vi proponiamo un ciclo di CAMMINATE a CARATTERE STORICO, incentrate sulla RESISTENZA all’interno del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna e nelle zone limitrofe ad esso.

Andremo a cercare le varie lapidi dove gli eroici Partigiani caddero per riscattare l’onore dell’Italia (ferita moralmente e fisicamente da oltre vent’anni di ignominia fascista e, dopo l’ 8 Settembre, invasa militarmente dai nazisti ai quali si unirono presto i loro servi repubbichini).

Vi porteremo sui luoghi dove i partigiani combatterono e dove sorsero le loro prime basi, visitando i crinali e le valli dove si svolsero i principali scontri con il nemico.

Per questo progetto abbiamo avuto il riconoscimento dal Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna che ci ha rilasciato il PATROCINIO.

 

RIPARTENZA ESCURSIONI

FINALMENTE, sembrerebbe, che dal 1 MAGGIO si potrà RIPARTIRE.

Abbiamo un FITTO CALENDARIO con tantissime novità ed alcuni classici immancabili che attendiamo l’ufficializzazione delle “zona gialla” per pubblicare.

RIDRACOLI tra Acqua, Cielo e Terra

Riprendiamo i nostri “Viaggi di fantasia tra antiche parrocchie perdute” e questa volta vi porteremo a Ridracoli.
Si tratta della parrocchia più distante dal capoluogo del Comune di Bagno di Romagna ed un tempo anche tra le più popolose (nel 1913 vi si contavano ben 326 abitanti).
Ieri come oggi Ridracoli deve la sua fama all’acqua: per la maggior parte della gente, Ridracoli è sinonimo di diga e del suo grosso lago artificiale che dispensa acqua a buona parte della Romagna.
L’origine del nome pare derivi dal latino “Rivus Oracolorum” (Rio degli oracoli) in riferimento ad un tempio lungo il corso del fiume.
Assieme all’amico Marco, compagno di tanti sopralluoghi, ci diamo appuntamento di buon mattino a Santa Sofia per poi proseguire assieme in macchina fino a quello che era il centro di questa antica parrocchia.
Parcheggiamo nel piazzale antistante la chiesa di San Martino dove, con cadenza annuale fino ai primi anni ’50, si teneva la “Fiera del Biracchio”: una sorta di mercato di bovini. Alle nostre spalle, pericolante, è sita la piccola scuola pluriclasse costruita nei primi anni ’60.
Scendiamo la scalinata e ci troviamo davanti ad un bellissimo edificio imponente: si tratta del Palazzo Giovannetti (l’abitazione dei “ricconi” della parrocchia), convertita oggi a ristorante.
Sulla sinistra un bellissimo ponte ad arco supera il Bidente: la sua costruzione risale ai primi del 1800; l’edificio attiguo era la locanda, detta “Osteria del Terrore” (nome quanto mai evocativo! Mi fermo a pensare alle sbornie mastodontiche che si saranno fatte lì dentro e vorrei rinverdire quei fasti… tiro fuori la bottiglia di vino ma Marco (il maestro salutista!) mi ferma dicendo che sono solo le nove di mattina… seguo il consiglio ed iniziamo a salire.
Superiamo quello che a mio modesto giudizio appare un ecomostro (chiamato ecomuseo) e ci incamminiamo lungo il sentiero natura.
Un bell’ albero di gelso ci preannuncia il primo rudere della giornata: le Galvane (casa abbandonata alla fine degli anni ’50). Alcuni ciliegi selvatici mi suggeriscono una pausa e questa volta anche Marco, seppur controvoglia, è costretto a fermarsi assecondando le mie voglie mangerecce.
Si sale ed il sentiero si fa più aperto, sotto di noi vediamo il Bidente scorrere placido e l’asfaltata con il parcheggio e la biglietteria. In breve arriviamo anche noi alla strada in prossimità di una fontanella con tavolo e panche.
Questa volta il vino lo tiro fuori e Marco mi porge i suoi famosi e famigerati biscotti “fatti in casa” secondo l’antica ricetta che neanche sotto tortura passerebbe a qualcuno.
Camminiamo in salita lungo l’asfaltata, il tratto di stradone è reso meno noioso dai bei panorami che si aprono alla nostra sinistra. Entriamo in un tunnel buio dove le nostre voci fanno eco e come due bambini ci divertiamo urlando parole senza senso solo per il gusto di ascoltare il boato di ritorno del suono.
Appena la galleria finisce la diga ci appare in tutta la sua imponenza; ci fermiamo ad ammirarla promettendoci di tornare alla prima tracimazione possibile.
Alcuni turisti sono già sul posto e questo ci dà l’orticaria… Li lasciamo immediatamente svicolando su di un sentiero di destra che, superato un cancello, si inoltra nel bosco.
La vecchia staccionata in legno che delimitava il sentiero è in pessime condizioni ed in parte è crollata. In poco tempo arriviamo ad una delle case più affascinanti che abbia mai visto: le Celluzze, la casa (abbandonata negli anni ’50) emerge dalle acque dell’invaso in secca per immergervisi nuovamente al crescere delle stesse.
Superiamo il canale di gronda che immette nella diga le acque di un altro ramo del Bidente ed arriviamo ad una bella terrazza panoramica. Costeggiamo il lago ed eccoci arrivati al primo affluente che si getta nelle acque dell’invaso con una bella cascata: è il fosso del Molinuzzo. Inizio a risalire il fosso mentre Marco (il tecnologico!) smanetta con il suo gps (io vado di cartina che non mi tradisce mai!).
Questo tratto di percorso è magnifico, guadiamo il fosso più volte fino a raggiungere i pochi resti del mulino. Nel frattempo abbiamo svalicato nella parrocchia di San Paolo in Alpe ed iniziamo a salire a sinistra (prendendo il sentiero di destra arriveremmo al Ridondone, mentre proseguendo incontreremmo le Casette).
Uno strappetto, breve in lunghezza ma alquanto ripido, ci porta ai resti della Poderina. Giriamo attorno alla casa per cercare di farci un’idea di come fosse. Un particolare coglie la mia attenzione: la piccola porta di legno verniciata di verde. Mi fermo a ricordare le storie raccontatemi da Giuseppe Rossi della Seghettina dei balli che qui si tenevano e mi perdo nei mei pensieri. Cerco di immaginarmi gli ultimi abitanti di questa casa che se ne andarono nei primissimi anni ’60 per chissà dove, il loro lasciarsi alle spalle tutto per un futuro che sognavano e che mi auguro possa loro aver riservato tante gioie, o perlomeno minori privazioni di quelle dalle quali “fuggivano”. Chissà se si saranno resi conto di essere tra gli ultimi attori di un mondo sul quale la storia stava calando il sipario e nel caso affermativo quali sentimenti questo pensiero suscitò in loro? (Quando torneremo qui assieme vi racconterò alcune storie riguardanti questo podere…)
Marco nel frattempo ha aperto un varco nella spinaia e mi invita a seguirlo. Un vecchio castagneto ci accompagna fino all’arido crinale panoramico del Poggio della Gallona. Tra i pini si intravedono le acque dell’invaso mentre i rovi ricoprono i pochi resti di una casa: Pratovecchio.
Da qui si scende lungo un’esile traccia che, superato un piccolo rimboschimento, si addentra in un magnifico bosco di querce per poi perdersi in un groviglio di ginestre e ginepri.
Con forbici e machete riusciamo a farci largo tra questi, sbucando lungo una pista forestale. Davanti a noi i resti di una casa: si tratta dell’Ammannatoia, “una delle proprietà dell’Opera del Duomo di Firenze”(cit.1), documentata dalla metà del 1500.
Il sole è alto e la pancia brontola. Ci sediamo nello spiazzo antistante la casa e pranziamo allegramente, accompagnando il tutto con una bella bottiglia di rosso.
Riprendiamo a camminare lungo l’ampia strada fino ad un bivio che prendiamo a sinistra; un ponte di legno supera il fosso della Sega lungo le cui sponde abbondano i farfaracci, alcuni davvero grandi!
Passato il ponte, il sentiero sale decisamente; affrontiamo lo strappo abbastanza “ignorante” che termina d’innanzi ad una bella casa ristrutturata. Siamo giunti alla Seghettina (il borgo era formato da due gruppi: Seghettina di Sotto e Seghettina di Sopra). Come ricordato in precedenza, ho avuto la fortuna di intervistare Giuseppe la cui famiglia fu l’ultima a lasciare il podere attorno alla metà degli anni ’60. Essendo la parrocchia di Ridracoli spalmata su di un ampio territorio, qui alla Seghettina dal dopoguerra all’esodo, fu attiva una seconda scuola pluriclasse che accoglieva anche bambini di alcune case della Parrocchia di San Paolo.
Alla fonte riempiamo le borracce, ringraziando chi si occupa della sua sistemazione tenendola attiva. Ci fermiamo qualche istante alla Seghettina di Sopra a leggere l’interessante lapide che ricorda il sacrificio della popolazione locale durante l’ultima guerra nel nascondere gli ufficiali alleati in fuga dopo l’ 8 Settembre. (Quando potremo tornarci parleremo della Resistenza in questi luoghi).
Il bosco si fa mano a mano che avanziamo più buio, iniziamo ad incontrare faggi ed abeti bianchi mentre superiamo in successione i magnifici fossi degli Altari e della Lama. Immergere i piedi nelle fresche acque vi assicuro essere un vero toccasana. Il sentiero segue il fosso alcuni metri più in alto; ad un certo punto la corrente si fa meno forte per poi arrestarsi del tutto, siamo tornati nuovamente al lago!
Ci fermiamo a riposare in una piccola spiaggetta dove attraccano i battelli dei turisti pasteggiando con grappa e cioccolata (almeno io! Marco, il solito salutista, si mangia la banana…).
Superiamo il fosso del Carpinone (ricordate la camminata a Casanova dell’Alpe? [per chi se la fosse persa: https://www.itrekkabbestia.it/prova-prova-2-2-2-2-2-2-2-2/] Esatto, si tratta dello stesso fosso) e saliamo lungo il sentiero CAI 235 che, superati tratti galestrati panoramici ed altri rimboschiti, giunge al Casone (siamo nella Parrocchia di Casanova; della casa, un tempo molto grande come si evince dal nome, rimangono pochi ruderi).
Saliamo ancora, prima su sentiero CAI, poi su traccia infrascata fin sulla vetta del monte Cerviaia. Da qui scendiamo lungo un ripido crinaletto secondario che ci conduce all’ennesimo fosso della giornata. Marco continua a controllare il suo gps e non pare troppo convinto… ma io ho la mappa e so di non essermi sbagliato!
Risaliamo a naso l’altra sponda… la fortuna ci assiste, siamo infatti dove avremmo voluto essere, ovvero presso il rudere delle Farniole di Sotto, lungo il sentiero CAI 231 che scende da Casanova.
Lo imbocchiamo sulla sinistra in discesa per circa un chilometro raggiungendo i Tagli (ultimo rudere della giornata, la casa fu abbandonata nel corso degli anni ’50).
Il sentiero continua a scendere facendosi più largo e meno impervio, segno che non manca molto.
Superiamo le case restaurate delle Caselle e della Garfagnana ed in breve siamo nuovamente alla chiesa di San Martino. La sera inizia a farsi avanti e la luce si fa fioca…imbocchiamo la strada sul retro della chiesa che, superato il fiume, conduce al cimitero di Ridracoli. Mi suscita una gran rabbia vedere come venga lasciato crollare ed il disinteresse da parte delle istituzioni.
Dallo zaino estraggo qualche candela che porto sempre con me in caso di emergenza e le dispongo su alcune tombe; Marco, con un piccolo movimento del capo, pare assentire al mio operato.
Salutiamo così il popolo di Ridracoli, non prima però di dare un’ultima occhiata al magnifico ponte sul Bidente illuminato dalla Luna, e partiamo alla volta di Santa Sofia discutendo con enfasi su dove fermarci a cena!

NOTE:
1. Claudio Bignami (a cura di) : “Il popolo di Ridracoli” 1995

Il Popolo perduto dell’ alpe di Casanova

Questa settimana vi porteremo a conoscere la parrocchia di Casanova dell’Alpe; si tratta della “frazione più elevata del Comune di Bagno di Romagna” (cit.1) sita a circa 1000 metri di quota, sul crinale che divide il Bidente di Pietrapazza da quello di Ridracoli.

Oltre ad essere la più in quota, la parrocchia di Casanova è anche la più recente (fu costituita “solo” nel 1784); gli alpigiani vivevano di pastorizia e di lavori legati al bosco (ricordiamo la vicinanza della Foresta della Lama, della quale Casanova costituisce la porta d’ingresso).

La sua posizione a cavaliere tra due vallate ne rendeva ostico l’accesso, garantito solamente da una ramificata rete di mulattiere. Il collegamento più diretto era con la Toscana, grazie alla sterrata che dal Cancellino conduceva fino al Romiceto (podere distante meno di due chilometri dalla Chiesa).

La strada che prenderemo noi quest’oggi e che dalla zona della Bottega (Strabatenza) sale fino a Casanova fu ultimata solo negli anni ’70, quando ormai lassù sull’Alpe non abitava più nessuno.

Con Silvia partiamo alla buonora, decisi a compiere un largo anello escursionistico, capace di abbracciare buona parte di questa affascinante parrocchia fantasma.

Parcheggiamo la macchina ed iniziamo a scendere lungo il sentiero CAI 211 in una bella mattinata di sole (ligi al detto “Aprile non ti scoprire” abbiamo comunque infilato negli zaini, oltre al vino, anche una giacca che ci tornerà utile in seguito).

Ci fermiamo a riempire la borraccia alla fonte ed in breve raggiungiamo il primo rudere della giornata: le Fiurle (podere documentato dalla metà del 1500, abbandonato nel 1969); benché rimanga poco della casa, si intuisce la grandezza della stessa (a conferma di questo possiamo osservare la bella foto presa dal sito del Parco Nazionale).

Qui lasciamo il sentiero segnato ed iniziamo a scendere attraverso rimboschimenti fino al fosso dove incontriamo i resti di un altro podere della parrocchia: la Galluzza, dove un corniolo in fiore annuncia la primavera entrante.

Da qui si sale lungo l’ antico sentiero che in breve sbuca su di un poggetto panoramico… a riprova che la toponomastica non è mai casuale, incontriamo  il rudere del Poggiolo (bella casa, abbandonata negli anni ’60). Il posto merita una pausa: Silvia, sempre affamata, si concede uno spuntino…io opto per il vino.

La traccia si fa incerta, nascosta da ginepri e rovi che rendono difficile l’orientamento… ma I Trekkabbestia non si faranno certo intimorire da questo e, estratto il machete, il sentiero lo si ritrova in breve tempo.

Coperto da rampicanti e ginepri, adagiato in mezzo ad una zona priva di alberi, riconosciamo i pochi resti di un’abitazione: si tratta di Ca’ dei Santoni, a mio avviso una delle case più impossibili del giro odierno. Nel mio lavoro di ricerca per conto dell’Ente Parco, ho avuto la fortuna di intervistare Mauro, la cui famiglia fu l’ultima ad abitare il podere (abbandonato nella prima metà degli anni ’50). Appena vi torneremo assieme vi racconterò alcuni curiosi aneddoti.

Siamo ormai arrivati sulla vetta del Monte dei Roncacci e questo tratto di sentiero è in comune con la camminata di Pietrapazza della scorsa settimana, anche se nella direzione di marcia opposta. Raggiungiamo la Siepe dell’Orso (il toponimo è chiaro ed affascinante; la casa è stata restaurata e, se ci fossero miliardari che stanno leggendo il racconto, sappiate che è in vendita!), il sole è alto e la pancia reclama…

Decidiamo di fermarci e di imbandire un bel pranzetto, dai nostri zaini escono tante buone cosine…ed il vino non manca. La zona è magnifica, ampi panorami sulla valle di Pietrapazza ed oltre, fino al confine toscano; tuttavia il giro è ancora lungo e decidiamo di proseguire.

Superiamo un’altra casa restaurata (il Paretaio: l’ultimo abitante mi ha raccontato di un parto incredibile sotto la neve, fortunatamente dall’esito felice, che comunque ben testimonia le dure condizioni di vita in queste zone! La storia ve la racconterò appena sarà possibile tornarvi assieme). La carrozzabile prosegue fino ad un bivio che noi prendiamo a sinistra e che ci conduce al Romiceto (bella costruzione restaurata; nel campo dietro casa un branco di daini pascola serenamente).

Iniziamo a scendere lungo il fosso, in un ambiente naturale magnifico, circondati da una natura che lentamente si risveglia dal lungo letargo invernale. Quasi tutti gli alberi hanno gemmato ed il suolo è ricoperto da un tappeto di primule e di altri fiori.

Continuiamo la discesa ed in maniere crescente iniziamo a sentire un fragore provenire dal fondovalle; ci guardiamo sorridenti: la cascata del Carpinone è raggiunta!

Pochi minuti ci separano dal fosso dove un cumulo di massi testimonia l’esistenza di un mulino (chiamato del Carpinone/Carpanone), una bellissima cascata con relativa pozza conferiscono all’ambiente un che di magico. Una pausa è più che meritata e sbocciamo la seconda bottiglia della giornata.

Da qui si sale, attraversiamo un tratto franato e giungiamo ad una terrazza panoramica dove si ammira la valle; ancora pochi minuti ed eccoci alla strada forestale.

Inforchiamo la carrozzabile che ci conduce ad una fonte sulfurea (nelle mappe escursionistiche, editori pudichi l’hanno rinominata “Solforosa” ma il suo nome, tra l’altro per nulla volgare nella sua etimologia, era ben diverso… vi racconteremo la leggenda appena vi torneremo, non disperate!).

Per chiudere l’anello dovremmo prendere il CAI 235 in discesa, tuttavia, la Lama dista all’incirca un chilometro di comodo stradone e decidiamo di proseguire.

Arriviamo così ad uno degli ambienti a nostro avviso più belli del Parco Nazionale: il magnifico pianoro della Lama. I colori verdi sono al massimo dello splendore, la natura è entrata nella sua fase vegetativa ed i ruscelli, ingrossati dalle recenti piogge, sono in piena. La zona è un paradiso per gli anfibi, ma anche per gli escursionisti non è da meno! Visitiamo i patriarchi arborei in fondo al pratone e ci divertiamo ad immergerci nell’ontaneta allagata.

Raggiungiamo il grazioso bivacco Tigliè ed accendiamo il fuoco. La mente torna alle tante serate di molti anni fa quando con i fedeli amici e compagni di mille trekking (Claudio ed Andrea su tutti, ma anche gli altri!) si arrivava qui al termine di decine di chilometri, con zaini impossibili strapieni di cibarie sufficienti per un assedio, ma che noi divoravamo nel giro di poche ore.

Apriamo una bottiglia e brindiamo alla memoria dei tempi andati, con la promessa di rinverdirli il prima possibile.

Torniamo sui nostri passi seguendo una labile traccia che costeggia il fosso della Lama (l’affluente principale tra gli immissari dell’invaso di Ridracoli). Guadiamo il fiume più volte fino a ritrovare il sentiero CAI 235.

Incontriamo nuovamente il fosso del Carpinone che qui si getta nell’invaso; il ponte è crollato ma non sarà certo il guado a spaventarci, al successivo bivio rimaniamo sul 235 che inizia a salire.

Superato un tratto scoperto “galestrato” e panoramico arriviamo al Casone. Costruito ed appartenuto alla famiglia Fabbri (ho avuto la fortuna di intervistare due dei numerosissimi fratelli che qui abitavano) a detta di quanti ebbero la fortuna di vederlo era la più bella casa della zona!

Il rudere successivo è il Pratalino, qui ci fermiamo a riposare dopo la lunga salita ad osservare l’ultimo sole della giornata che proietta le nostre lunghe ombre sull’aia della casa.

Un bicchiere di rosso è d’obbligo…

Il sentiero si fa più largo ed agevole, ignoriamo la deviazione sulla sinistra diretta a Ridracoli e, superata la sbarra, raggiungiamo la strada sterrata proveniente da Strabatenza.

Prima di arrivare alle macchine, ci fermiamo presso il piccolo cimitero di campagna per porgere i nostri saluti a coloro che quassù riposano. Un omaggio particolare va agli eroi che in quel lontano e tragico Aprile 1944 qui persero la vita per la nostra libertà.

Le tenebre ormai avvolgono la valle ed entrambi siamo stanchi; ci sediamo ad ammirare il tramonto al riparo della tettoia della piccola scuola pluriclasse di Casanova, novelli studenti fuoricorso di un mondo che non esiste più.

NOTE:
1. Claudio Bignami (a cura di) : “Il popolo di Casanova dell’Alpe” 1994

Alla Festa di Pietrapazza

Quarto appuntamento con le nostre “camminate di fantasia tra antiche parrocchie fantasma”; questa domenica vi porteremo a scoprire quella che probabilmente consideriamo la nostra parrocchia preferita.
Pietrapazza: un nome che ha sempre suscitato in me un’attrazione ed una suggestione difficilmente spiegabili a parole. Fin da ragazzo ho associato a questa remota parrocchia del Comune di Bagno di Romagna un alone di mistero, a tratti di soprannaturale e magico, unito ad un senso di selvaggio ed inesplorato. Questo nucleo, incassato a ridosso della Giogana appenninica mi ha sempre chiamato a sé e resistervi mi è sempre stato impossibile.
Non si contano le escursioni che nel corso degli anni ho svolto in questo territorio, “attaccandolo” da ogni lato, seguendo tracce di sentiero appena percettibili alla ricerca di ruderi “impossibili” smarriti nell’oblio (mi vengono in mente case quali Campo alla Sega ed il Castagnaccio).
Pietrapazza, antico dominio dei Valbona, contava un gran numero di abitazioni sparpagliate per un territorio aspro e difficile. A differenza della limitrofa parrocchia di Strabatenza (escursione della settimana scorsa!) i suoi terreni non offrivano grandi rendite e la gente che qui viveva trovava nei lavori legati alla foresta e nella pastorizia le sue fonti di sussistenza.
L’esodo massiccio degli anni ’50 e ’60 ha svuotato questa (un tempo!) popolosa parrocchia ed oggi, grazie anche all’istituzione nei primi anni ’90 del Parco Nazionale, gli animali sono tornati ad essere i padroni indiscussi di una natura rigogliosa che gli alpigiani di un tempo cercarono di ammansire e controllare tramite ronchi, esboschi, coltivi, strade mulattiere…
Il silenzio regna sovrano sulla Valle 364 giorni all’anno… Vi è infatti un giorno (uno solo all’anno!) in cui la parrocchia si risveglia dal suo torpore e, novella fenice, rinasce dalle sue ceneri: si tratta della prima domenica di settembre, festa di Santa Eufemia alla quale è dedicata la chiesa di Pietrapazza. In questa giornata il suo popolo ritorna alla terra natia e festante rinverdisce gli antichi fasti di un mondo che non esiste più.
Quest’anno abbiamo deciso anche noi de “I Trekkabbestia” di prendere parte ai festeggiamenti, ma alla nostra maniera… Ovvero non arrivandoci comodamente in macchina, ma affrontando una lunga camminata che ci dia modo di conoscere buona parte della parrocchia, lungo antiche mulattiere alla ricerca dei tanti ruderi sparsi.
Partiamo alla buonora dal parcheggio del cimitero di San Piero in una mattinata fresca (l’autunno è ormai alle porte) con un meteo uggioso ed incerto. A Poggio alla Lastra ci fermiamo per incontrare i partecipanti dell’escursione e fare due chiacchiere pre-partenza.
Nell’attesa dei ritardatari, quasi come per magia… (questo è un gruppo di maghi!) dagli zaini iniziano ad uscire biscotti, liquori, caffè… Insomma, tutto il necessario volto ad imbastire una seconda colazione di tutto rispetto.
Partiamo in macchina verso Casanova dell’Alpe (vi porteremo a conoscere questa parrocchia la prossima settimana, non temete) e poco dopo parcheggiamo le auto.
Assieme a Silvia sintonizziamo le radioline e, ponendoci uno alla testa l’altra in coda al gruppo, iniziamo a camminare. Il nostro obiettivo è il Monte dei Roncacci, toponimo che a proposito di appoderamento non poteva essere più consono; avremo modo di qui a breve di scoprirne il perché.
Una traccia priva di segnaletica CAI, ai piedi di un grosso faggio, si inoltra in un giovane bosco misto di querce, carpini, ornielli, aceri ed alcune conifere di rimboschimento. In pochi minuti arriviamo ad un bel punto panoramico dove io e Silvia accorpiamo il gruppone (siamo proprio felici per il “tutto esaurito” odierno con ben 20 partecipanti!) e spieghiamo il giro, indicando i punti che andremo a toccare.
Il parlare, assieme al sole ormai alto e scevro di nubi, mette caldo…fortuna vuole che nel gruppo ci sia Mirko, trentino, con l’immancabile fiaschetta di grappa fatta in casa che mi porge con discrezione ed affetto! Iniziamo a scendere e, superati i pochissimi resti del Casone, incontriamo uno spiazzo con al centro i ruderi di Ca’ di Giorgio. Si riconosce il bel forno ed in una nicchia scavata nella parete si intravedono ancora i resti di alcune calzature. Mi stacco un po’ dal gruppo rumoroso e mi fermo a pensare alla famiglia Mariannini, che qui viveva fino ai primi anni ’60 prima di spostarsi nei dintorni di Santa Sofia. Ricordo l’intervista che feci ad uno dei fratelli Mariannini (non ricordo il nome!) ed alle storie di ordinaria fatica che mi raccontò e che sarò felice di condividere con voi appena potremo tornarvi assieme.
Si continua a scendere, incontrando in rapida successione i pochi resti di altre case: Ca’ dei Maestri, Petrella ed il mulino di Ca’ di Pasquino (“Ricordato nei primi documenti come Mulino delle Graticce, questo era uno dei tre mulini dell’antico comune di Poggio alla Lastra” (cit. 1)). Arrivati al Bidente, presso il mulino, ci fermiamo a mettere i piedi a mollo. La zona è amena e meriterebbe una pausa ben più lunga, una pozza fresca ci chiama a sé ed un tuffo ci starebbe proprio… Tuttavia il tempo corre, la festa è già iniziata e non ci aspetterebbe… Rimandiamo, sebben a malincuore, il bagno; tuttavia il sufficiente tempo per aprire una bottiglia di rosso ed assaggiare qualche tarallo di Pamela lo troviamo… e va beh, anche per il salame che Marco ha iniziato ad affettare. Dal fiume non possiamo che salire, la traccia si fa labile ed incerta, ma seguendola eccoci in pochi minuti presso la terrazza panoramica dove sorgeva Ca’ del Conte (qui “fino al 1921 vi era allogata la scuola” (cit. 2) pluriclasse della parrocchia). Della casa, abbandonata negli anni ’50, rimane poco. Facendoci largo tra i ginepri, riguadagniamo il Bidente nei pressi di un bel ponte in muratura. Un altro edificio, sommerso dalle edere, si intravede sulla sponda sinistra: è il piccolo Mulino di Ca’ del Conte dove, nel corso della prima metà del ‘900, fu attiva un’osteria… Un bicchiere di vino è qui dunque d’obbligo.
Sull’altra sponda incontriamo il piccolo cimitero (messo in sicurezza alcuni anni fa); dove entriamo a portare il nostro saluto a coloro che qui riposano. Cerco di leggere alcune lapidi consunte dagli anni e dalle intemperie, liberandole dalle erbe infestanti che le avvolgono. Penso a queste genti: alle loro fatiche, alle loro gioie, insomma alle loro vite. Sarò sicuramente limitato ma se avessi a disposizione una macchina del tempo, con un solo viaggio possibile, vorrei tornare qui, nell’immediato dopoguerra, prima dell’inizio dell’esodo. Il flusso dei miei pensieri viene distolto dal vociare e dagli schiamazzi che si fanno sempre più forti, provenienti da non troppo lontano e che annunciano il fatto che la festa di Pietrapazza sia già a buon punto.
Arriviamo così anche noi sul sagrato della chiesa di Santa Eufemia ed in un attimo siamo accolti dalla gente festante che ci si fa incontro ad offrirci mille squisitezze. Ovviamente non mi tiro indietro, invitando i ragazzi a fare altrettanto. Saltello da un tavolo all’altro, fermandomi a chiacchierare con le tante persone presenti: alcune le ho conosciute ed intervistate durante il mio progetto di ricerca al Parco Nazionale, altre mi vengono presentate e mi diverto ad intrattenermi con loro.
Veniamo coinvolti in “pericolosi” giri di dolci e liquori di ogni sorta ed i più disinvolti di noi prendono parte ai giochi organizzati mentre altri, con Silvia in testa, approfittano della pausa per rinfrescarsi presso la magnifica pozza lungo il fosso delle Graticce.
Vorrei fermare il tempo qui… Tuttavia il nostro percorso è solo a metà e ci attende la salita! Salutiamo e ringraziamo il “popolo di Pietrapazza” e, superato il ponte della Cantinaccia, rientriamo nel bosco.
Su di un successivo ponte di legno superiamo un ruscello in secca ed iniziamo la salita lungo l’arido ed impervio crinale del “Raggio del Finocchio” fino ad una maestà detta del Raggio. Da qui si gode una panoramica fantastica sulla Valle di Pietrapazza e sui monti circostanti; la salita è stata impegnativa ed una pausa ci vuole… Mirko mi guarda e, senza bisogno di parole, mi allunga la grappa… Federico non vuole essere da meno e mi fa assaggiare la sua!
Così ristorato riprendo a salire per giungere nei pressi di un’aia con al centro un rudere: si tratta della Cialdella (casa censita dalla prima metà del ‘500). Una bella panoramica ci permette di vedere in lontananza davanti a noi l’Eremo Novo, prossima nostra meta.
Il sentiero attraversa un tratto boscoso scendendo al ruscello, la natura rigogliosa che ci circonda è suggestiva oltremodo ed il grazioso ponte che supera il fosso è magnifico nella sua semplicità.
Siamo finalmente arrivati al podere dell’Eremo Novo: in origine insediamento Camaldolese appoderato nel corso del 1500 e ricostruito a metà dell’800 a seguito di una frana. La casa fu abitata dalla Famiglia Rossi fino ai primi anni ’60. (Ho avuto la fortuna di intervistare alcuni dei fratelli Rossi e quando torneremo assieme vi racconterò alcune curiosità che mi hanno confidato).
Come vi dicevo, la zona è incantevole e ci fermiamo più che volentieri: c’è chi si sdraia sull’erba (prima stendere sempre la giacca che le trombicule amano gli escursionisti!), chi si “butta” sui rovi in cerca di more e chi, come me, approfitta della fresca pozza per un tuffo refrigerante.
L’acqua, che eufemisticamente definirei fresca, mi tonifica ed eccomi pronto come non mai a guidare il gruppo verso l’infinito ed oltre!
Tanto per cambiare si sale… una fonte lungo il percorso dove possiamo riempire le borracce ci suggerisce una piccola deviazione ai ruderi della Bertesca (ultima casa della parrocchia ed essere abbandonata nell’ormai lontano 1970… Clorinda, ultima “inquilina” assieme al padre, l’abbiamo incontrata alla festa e ci ha detto di portare un saluto alla “sua Bertesca”… l’accontentiamo dedicandole una bella bottiglia di Sangiovese Riserva).
Oltrepassati i campi il sentiero entra in faggeta e si fa mano a mano più ombroso e chiuso, questo tratto è veramente bello ed il gruppo, vuoi per lo stupore, vuoi per la fatica, si fa silenzioso.
Pini neri ed abeti rossi appaiono d’improvviso dietro ad una curva secca e vogliono dire solo una cosa: rudere! In un piccolo cucuzzolo nascosto dai rimboschimenti e coperto dalle vitalbe incontriamo San Giavolo (nome a mio parere alquanto suggestivo…la fatica per arrivarvi mi fa venire in mente la possibile origine del nome!).
Proseguiamo su sentiero nascosto a mezza costa, superando un piccolo fosso (Fosso del Piano) ed iniziamo a salire fino ad una delle case a mio giudizio “più difficili” della parrocchia: il Castagnaccio; a suffragare i miei pensieri ci sono i documenti che testimoniano che “Per quel che riguarda la casa […] non era mai stata a capo di un podere ma una semplice abitazione di operai” (cit. 3). La casa fu abbandonata nei primissimi anni ’60 ed oggigiorno solo poche pietre ne testimoniano la presenza. Siamo ormai a ridosso del crinale ed il sole si è fatto meno “ossessivo… è il momento giusto per tirare fuori la ciambella e bere lo spumante.
Ormai manca poco per chiudere l’anello escursionistico: tuttavia il percorso ci riserva un’ultima casa della parrocchia: l’Abetaccia, anch’ essa abbandonata nei primi anni ’60 dalla famiglia Mariannini (ho avuto la fortuna di intervistare le tre sorelle che vi abitavano e che mi hanno raccontato numerosi aneddoti di come si viveva quassù). Vi arriviamo al termine di un’arida greppa, superata una frana e guadato il fosso del Rignone quasi in secca.
Siamo tornati sul crinale da dove eravamo partiti alcune ore prima; Silvia alla radio mi dice che anche i fotografi, scattate le ultime foto al tramonto, stanno arrivando. Il gruppo è riunito alle macchine ed anche Furiocane ed il feroce Gino (amici a quattro zampe compagni di tante escursioni) sono arrivati e paiono incredibilmente stanchi. Giulia ci rinfranca con il suo proverbiale vaso colmo di tanti cioccolatini ai quali attingiamo a piene mani prima di salutarci e ripartire. Mentre l’oscurità ed il silenzio vanno ammantando la parrocchia di Pietrapazza, un ultimo grido di Marcucciniana memoria rompe il silenzio della valle: si tratta di Simone, che in romagnolo stretto ci maledice per l’ennesimo strappetto della giornata!

NOTE:
1. Claudio Bignami ed Alessio Boattini : “La gente di Pietrapazza”, Monti editore, 2018
2. Cooperativa Culturale Re Medello : “Il popolo di Pietrapazza” , Tipografia Moderna F.lli Zauli 1989
3. Claudio Bignami ed Alessio Boattini : “La gente di Pietrapazza”, Monti editore, 2018

La Strabatenza segreta dell’ VIII Brigata Garibaldi

Terzo appuntamento con le nostre “camminate di fantasia tra antiche parrocchie fantasma” alla scoperta di un mondo perduto, un universo andato che ormai ci pare lontanissimo e che speriamo di rendervi il più prossimo possibile grazie al racconto che segue.
Nelle precedenti due camminate vi avevamo condotto rispettivamente a Rio Salso e Rio Petroso, due parrocchie povere e non particolarmente popolose, a metà strada tra le Valli del Savio e del Bidente. Oggi lo svalicamento è compiuto e ci troviamo nella Valle del Bidentino (uno dei rami dai quali ha origine il Bidente) sempre comunque all’interno del Comune di Bagno di Romagna.
Questa camminata ci darà modo di conoscere la Parrocchia di Strabatenza: una tra le più popolose tra quelle che vi faremo conoscere ed anche una tra le più “ricche” e produttive, data l’abbondanza di zone pianeggianti che ben si prestavano all’agricoltura ed all’allevamento. A differenza di altre comunità limitrofe, l’esodo qui si protrasse fino agli anni ’70 e fu in buona parte “forzato” (almeno così mi hanno riferito alcuni degli ex abitanti con i quali ho avuto la fortuna/piacere di parlare).
Come consuetudine ci ritroviamo al parcheggio del Cimitero di San Piero in Bagno e partiamo in auto alla volta di Santa Sofia. Poche curve prima di arrivarvi, voltiamo a sinistra seguendo le indicazioni per Poggio alla Lastra dove ci fermiamo qualche minuto per sgranchirci le gambe. Qui ci starebbe bene la scritta: “Hic sunt leones” o meglio “lupos”; in questo piccolo paesello (oggi semideserto ma in passato popoloso sin dai tempi in cui fu Comune sotto la dominazione fiorentina, “fra i più lontani dal centro del capitanato” (cit.1)) varchiamo le colonne d’Ercole e ci immergiamo nella “valle del silenzio” di Serafiniana memoria.
Proseguiamo in auto sulla strada principale che si fa sterrata (immancabile la pausa al Poggetto per riempire le borracce presso la fonte freschissima). Superiamo le famose pozze “del Poggio” (bellissime e molto conosciute, soprattutto negli ultimi anni; alcune macchine di “villeggianti cittadini” sono già sul posto!) ed avanti risalendo il corso del fiume. Arriviamo ad un grosso bivio presso l’area attrezzata di Ponte del Faggio (zona Bottega) e qui parcheggiamo le auto. Respiriamo a pieni polmoni l’aria fresca e frizzante di questa mattinata estiva mentre allacciamo gli scarponi e controlliamo di aver caricato a dovere lo zaino… ed ecco la prima (tremenda!) brutta notizia della giornata: mi sono dimenticato il vino a casa.
Tuttavia mai disperare, una guida AIGAE che si rispetti ha sempre un piano B di riserva… Inizio a camminare in salita lungo l’ampia strada che in poco mi porta a Trappisa di Sotto. La casa è stata di recente assegnata al gruppo “Dos Dias” vincitore del bando provinciale di affidamento. I ragazzi stanno lavorando per rendere quanto prima agibile il rifugio. Mi fermo a chiacchierare con loro (alcuni sono amici di vecchia data) ed alla fine due belle bottiglie di rosso riesco a rimediarle.
Salutati i ragazzi, riprendo a camminare fino a superare Ca’ della Vigna… La toponomastica è chiara: il nome ricorda i tempi andati, prima della filossera, quando questi terreni producevano (a detta dei locali) un ottimo sangiovese “quasi frizzante e facile a bersi, dalla vigorosa gradazione” (cit.2). Mi guardo intorno immaginando vigne a perdita d’occhio, invece degli odierni rimboschimenti a conifere, appoggiandomi alla recinzione per asciugare il sudore. Un raglio improvviso alle mie spalle mi fa trasalire: voltandomi di scatto vedo il grosso muso di un asino a pochi centimetri da me. L’asino mi guarda per un po’ in silenzio, dopodichè riprende il “suo discorso ragliante”; credo di aver capito cosa vuol dirmi e lo traduco a grosse linee: “pore baibe cos tu spetarai ad aprì el vin che t’hai invec ed sognà li viti”? Ha proprio ragione ed in un attimo apro la prima bottiglia che i ragazzi di Trappisa mi hanno regalato.
Continuo a camminare con il pensiero ancora rivolto ai vigneti e non mi accorgo di essere già arrivato nel cuore di quella che era la popolosa parrocchia di Strbatenza.
Purtroppo, ai nostri giorni, resta poco di quello che doveva essere un magnifico borgo, spazzato via per sempre dalla “dinamite impietosa e stupida del Corpo Forestale dello Stato” (cit.3).
Rimane la chiesa, costruita negli anni ’20 del novecento a seguito dei grossi terremoti che investirono la valle, la bella casa Zuccherelli, la scuola (ancora per poco…) ed il silente cimitero.
Una bella targa, vicino ad una fonte dove riempio la borraccia, ricorda gli eroici Partigiani dell’VIII Brigata Garibaldi che qui a Strabatenza trovarono riparo nel Marzo 1944, al termine dell’esperienza del distretto Partigiano di Corniolo.
Di recente inaugurazione è il “Sentiero del Partigiano Janosik” (dedicato a Giorgio Ceredi, partigiano e commissario politico di uno dei distaccamenti che componevano la brigata) che in parte percorreremo.
Prima però di affrontare il suddetto sentiero, avanziamo lungo la strada forestale fino al cimitero; appoggio lo zaino al cancello ed entro: cerco di riconoscere tra le erbacce i nomi incisi nelle poche lapidi ancora presenti ed immagino di calarmi nei panni di un Edgar Lee Masters in salsa tosco-romagnola. Mi figuro gli spiriti di queste povere genti destarsi dal loro torpore eterno e raccontarmi le loro vicissitudini… mi perdo in questi viaggi…
Il sole alto in cielo mi desta dalle mie fantasie e trovo riparo nella piccola cripta del cimitero dove mi fermo a riposare, riempiendomi il bicchiere di vino per brindare alla salute dei miei oratori immaginari che “dormono, dormono sulla collina” (cit.4).
Continuo a salire, superando le case di Ca’ Boscherini (recentemente ristrutturata) ed il Vinco. Qui il sentiero si fa più labile proseguendo tra fitti ginepri e ginestre in fiore dal profumo inebriante. Arriviamo ad una delle case a mio avviso più impossibili della zona: Ripastretta (una leggenda parla di un miracolo qui avvenuto secoli orsono ad opera di un Santo che vi si trovò a transitare… storia che vi racconterò in loco, appena sarà possibile tornarvi assieme!)
Siamo al confine con l’attigua parrocchia di Casanova dell’Alpe e per non svalicare decidiamo di scendere sulla sinistra, seguendo una traccia zigzagante che in breve tempo ci accompagna ad uno spiazzo rimboschito. Al centro, quasi uscito dalle fiabe, sta un rudere coperto di muschi (i Fondi); accanto un grazioso ponticello in pietra supera il fosso. Mi pare di essere finito nel mondo delle fate ed attendo che qualche esserino magico faccia capolino da dietro qualche pietra. Nell’attesa affetto formaggio e verso il vino.
Abbiamo incrociato il Sentiero del Partigiano (indicato da una stella rossa e non dalla abituale segnaletica CAI bianca e rossa) di cui prima vi abbiamo parlato; lo prendiamo in salita fino a giungere ad una bella e panoramica maestà in pietra risalente (o almeno datata) al 1886.
Il tracciato entra in uno dei suoi punti più scoperti ed il sole si fa sentire; una fune di acciaio posizionata di recente (ringraziamo chiunque sia stato a metterla!) ci aiuta nel passaggio.
Giungiamo così al rudere della Casaccia, pochi resti pericolanti che però ci danno bene l’idea di quanto la casa fosse grande. Si vedono ancora i resti di quella che immagino essere stata la cucina: alcune mensole scavate nella parete, una sorta di acquaio in arenaria ed un bel camino con ancora incise le iniziali di chi lo costruì. La zona è riparata e suggerirebbe di fermarsi più a lungo… il caldo però mi fa prendere la decisione di camminare altri dieci minuti fino ad arrivare alla bella cascata lungo il fosso del Palaino, dove finalmente posso togliere gli scarponi ed immergere i pedi al fresco.
Pane, salame e formaggio (alla faccia delle barrette energetiche!) accompagnano la seconda bottiglia della giornata che sboccio e verso in abbondanza. Mi sdraio e mi appisolo per qualche decina di minuti.
Una libellula di un blu metallico mi sfiora il viso e mi sveglia, immagino voglia dirmi di non indugiare troppo e che da vedere c’è ancora molto. Mi asciugo e riprendo a camminare poche centinaia di metri per ammirare i resti di Ca’ del Tosco. Mi ricordo (saranno passati almeno 10 anni) di una giornata tempestosa quando con l’amico Claudio, compagno di tanti trekking, ci rifugiammo nello stalletto purtroppo ora crollato. Al pari della Casaccia, doveva trattarsi di una grossa costruzione capace di ospitare famiglie alquanto numerose. Una lapide attira la mia attenzione, si tratta del ricordo di due bimbe decedute per cause legate alla guerra che, ancora anni dopo la sua conclusione, reclamava il suo tributo di sangue.
La casa successiva che incontriamo è il Palaino, della quale, purtroppo, rimane ben poco. (al pari delle altre case incontrate in precedenza in questa stretta vallecola, fu abbandonata attorno alla metà degli anni ’50, motivo che spiega l’avanzato stato di rudere).
Il sentiero sale fino ad un colle panoramico dove si domina la valle del Bidentino per poi attraversare un tratto franato ed incrociare il sentiero CAI che scende da Casanova dell’Alpe ai piedi dei ruderi del Trogo (una maestà in pietra ed il bel forno restaurato guardano quella che doveva essere una delle case più possenti della zona, oggi rudere).
Torniamo sui nostri passi ed in discesa, sotto un sole battente che non ci concede respiro, superiamo le case restaurate delle Cortine (di Sopra e di Sotto) per arrivare al Mulino delle Cortine (benchè al momento chiuso, il complesso merita una visita anche se solo esterna; ci auguriamo che possa risorgere e tornare presto allo splendore ormai perso da tempo).
Alla pozza presso il mulino mi attende una bella sorpresa: i ragazzi di Trappisa, finiti i lavori della giornata, hanno deciso di scendere al fiume per rinfrescarsi. Un tuffo tira l’altro e presto il sole si fa basso… Decidiamo così di rientrare a Trappisa per una spaghettata tutti assieme, il vino non manca e nell’attesa che l’acqua bolla mi faccio un giro ad ammirare i lavori eseguiti. La casa è ormai ultimata e splendida, pronta ad ospitare i Trekkabbestia al completo appena ci daranno il via e questa quarantena avrà termine.

NOTE:
cit. 1 : Alpe Appennina n.01, Monti Editore, 2019
cit. 2 e 3 :Claudio Bignami (a cura di), Il Popolo di Strabatenza, 1991
cit. 4 : Fabrizio De Andrè , Non al denaro non all’amore né al cielo (1971)

La Valle delle Petrose

Proseguiamo il nostro viaggio virtuale attraverso antiche parrocchie, spostandoci nell’abitato attiguo a quello attraversato durante il primo dei nostri viaggi (Rio Salso), ovvero Rio Petroso. Al pari di Rio Salso, la parrocchia di Rio Petroso, era una tra le meno popolose del Comune di Bagno di Romagna e fu tra le prime a subire l’esodo massiccio di popolazione finendo per essere, già all’inizio degli anni ’60, un insediamento praticamente fantasma. Ci diamo appuntamento al parcheggio del cimitero di San Piero per le 8.00 (in realtà, il vero punto di incontro è il Bar Italia dove Simonetta ci dà il buon giorno con un bel caffè corretto). Di qui partiamo con le auto, direzione Santa Sofia, e parcheggiamo nello spiazzo antistante il monumento ai martiri del Carnaio. Un saluto a questi innocenti qui trucidati dai nazisti e dai loro servi repubblichini in un lontano luglio del ’44 è d’obbligo, soprattutto in questo triste periodo storico dove il becero revisionismo rialza la testa e le fogne si sono aperte. Iniziamo a camminare sulla larga strada che si fa presto sterrata fino ad arrivare al Paretaio, ultima casa abitata della zona; ignoriamo l’invitante deviazione a sinistra che ci condurrebbe a Monte Piano, optando per il sentiero di destra che ci porta ad un bellissimo spiazzo panoramico. Davanti a noi possiamo osservare il caratteristico Monte Cuccolo ed ai suoi piedi buona parte della vallata di Rio Petroso. Fin da subito appare chiara l’asperità di questo territorio; il controcrinale galestrato su cui poggia Rio Petroso, ben delineato dal fosso della Val Cupa da una parte e da quello delle Petrose dall’altra, dà sfoggio del suo inconfondibile “aspetto lunare” fatto di marne esposte alla tramontana e modellate dalle intemperie e dai vari agenti atmosferici. Un paesaggio che a noi appare magnifico, ma che gli abitati di questi luoghi non potevano che reputare loro avverso ed inospitale, capace di poter offrire, nei migliori dei casi, spazi appena sufficienti ad una magra agricoltura volta all’autosostentamento. La gente viveva (o meglio sopravviveva) grazie all’allevamento ed a lavori legati al bosco; un’esistenza sicuramente non facile, fatta di rinunce e privazioni; non è difficile capire come lo sviluppo post bellico della nazione sia parso a queste genti come un’opportunità troppo ghiotta per riscattarsi ed in breve “la fuga” dalla terra natia sia stata inarrestabile. Tuttavia, benché arido ed inospitale, esistevano sul territorio ben due mulini (uno per ognuno dei due fossi principali prima citati), la popolazione pre-esodo superava sempre le cento anime (con un picco nel 1932) distribuita nei numerosi poderi sparsi. Il caldo di oggi ci ha suggerito di lasciare la fiaschetta di grappa a casa, optando per un più dissetante liquore alle erbe che assaggiamo prima di iniziare a scendere lungo un crinaletto tra marne erose e vetusti ginepri.
In breve raggiungiamo il primo rudere della lunga lista che ci attende: la Casetta; numerosi ailanti circondano i pochi resti della casa; si intuisce ancora la sua stazza non indifferente dalla grande facciata, davanti alla quale è posta la letamaia.
Proseguiamo a mezza costa lungo un sentiero appena percettibile, stando attenti a non seguire le tante tracce degli ungulati, per arrivare al rudere dei Prati (benchè il nome possa suggerire diversamente, non ho antenati in zona: una sorsata di liquore però la faccio ugualmente alla salute dell’omonimia!).
Dalla casa scendiamo verso il fosso che, data la scarsità d’acqua, guadiamo senza problemi ed in breve siamo ai pochi resti del Calcinaio; il rudere, al pari di molti altri poderi della zona, è documentato almeno dal XIV secolo, quando la fine del periodo feudale ed il successivo appoderamento toccò anche questa remota valle appenninica. Un tratto in salita ed eccoci finalmente a Buiolo, due grossi edifici testimoniano l’esistenza del podere, adagiato sul limitare di una delle poche zone abbastanza pianeggianti della zona. Possiamo immaginarlo come uno dei poderi più redditizi della zona…non a caso fu uno degli ultimissimi ad essere abbandonato. Ci fermiamo a riposare sotto la grossa quercia a mangiare qualche fico, preso dall’albero affianco, accompagnandoli con un po’ di liquore alle erbe.
Abbiamo incontrato nuovamente i segni bianco/rossi del CAI e li seguiamo affrontando uno degli strappi più impegnativi di oggi che in un chilometrino ci portano ai ruderi, nascosti da rovi e rampicanti, di Monte alle Vigne (la toponomastica probabilmente suggerisce l’antica vocazione di queste terre, benchè al moderno camminatore possa sembrare impossibile… la filossera era al tempo lungi dal venire!).
Qui il sentiero è esposto a nord e si fa più fresco; la presenza di alcuni timidi faggi ci suggerisce di rallentare il passo e di godere della frescura e del venticello che soffia.
Continuiamo a camminare fino ad un tratto aperto dove, nascosto dalla vegetazione, si intuisce una casa… siamo a Pian dei Cogi (Piangoce sulle mappe); proseguendo in quota arriveremmo a Rio Salso (ma ci siamo appena stati! Ricordate la scorsa camminata?) quindi scendiamo lungo il prato e, superato un modesto fosso contornato da bellissimi salici e pioppi, arriviamo ad un altro podere. Le ultime mappe escursionistiche riportano il nome Quadalto, tuttavia la contrazione dalla quale il nome deriva appare evidente (e ve la racconterò dal vivo quando potremo tornarvi assieme). Il sentiero si fa esposto con il sole alto sopra di noi che in “inizia a picchiare”…e la panza a brontolare…
Lasciamo così il sentiero segnato di cresta per una deviazione sulla destra che in breve ci porta a Vaiuccio. La casa è spettrale, con le mura perimetrali in buona parte ancora integre ma con i soffitti ed i solai crollati da tempo. Il camino della cucina appeso alla parete sospeso come per magia nel vuoto mi appare oltremodo affascinante; mi soffermo a pensare ai parchi pasti che avrà cucinato ed ai tanti legni freschi che avrà consumato, inondando la stanza di fumo nelle lunghe e tediose notti invernali, quando la numerosa famiglia Mosconi (ultimi abitanti) si radunava al completo sull’ aròla per ascoltare le storie del nonno. Penso a mio nonno ed a tutti i suoi racconti mentre affetto salame e stappo il vino.
Riparto in discesa verso il fosso e poi in salita, il sentiero compie un’ampia curva fino a scendere al fosso dove, incassato sotto un’alta rupe, è sito il piccolo Mulino delle Petrose (dai tanti nomignoli che gli sono stati affibbiati, e che vi racconteremo alla prima escursione, si capisce bene il fatto che non fosse il posto più ambito della zona. Per secoli fu l’unico mulino della comunità “dato all’incanto” per poi essere privatizzato alla fine del ‘700 a seguito dei decreti leopoldini). Come vi dicevo ho una passione speciale per i mulini (veri e propri cuori pulsanti di queste comunità). Una storia ambientata tra le due guerre (se ben ricordo) raccontatami da uno degli ultimi abitanti della valle, parla di una grande nevicata che bloccò la numerosa famiglia al mulino e del loro “miracoloso” salvataggio… appena torneremo assieme vi racconterò anche questa storia!
Saliamo risalendo l’altra sponda arrampicandoci lungo la greppa galestrata fino a recuperare la traccia che ci conduce alla Rocchetella. Ci fermiamo alcuni minuti sull’aia della casa per riposare, il caldo si fa sentire e il sudore non si placa. Andiamo avanti e superato un piccolo cancello (richiudete sempre!) incrociamo il sentiero CAI. Per chiudere l’anello dovremmo girare a destra ma il caldo ci consiglia un allungo ed inforchiamo quindi la sinistra. Una bella maestà (la cui costruzione è legata ad una delle tante storie di demoni e diavoli!) ci preannuncia il fantastico borgo di Ca’ Morelli. Qui merita fermarsi per ammiralo nella sua interezza… Un magnifico insediamento, costituito da più case che si affacciano sull’aia comune; dispiacere e rabbia nei confronti chi di dovere non ne ha impedito il crollo… per fortuna è rimasto un sorso di liquore che mi aiuta a distrarmi.
Pochi passi ancora ed eccoci al fiume! Un massiccio ponte di pietra con un alto arco lo supera, permettendo di arrivare nella strada bianca che proviene da Poggio alla Lastra. Nei fine settimana estivi la zona è molto frequentata dai tanti cittadini in fuga dalla caldana; fortunatamente non c’è anima viva ed un tuffo rinfrescante non ce lo cava nessuno. L’acqua fresca del Bidentino è un vero toccasana e vi indugiamo a lungo accompagnati dal coro delle numerosissime cicale.
Ritorniamo sui nostri passi, ma questa volta in salita…e che salita! Raggiungiamo i resti della Rocchetta, dopodichè lasciamo il sentiero ed in ripida tracci arriviamo alla maestà panoramica della Rocchetta (sistemata di recente con dubbio gusto, offre un panorama incredibile sulla nostra valle). Ci sediamo a riposare e tiriamo fuori dallo zaino vino e ciambella, che divoriamo in pochi bocconi (dicono che il caldo tolga la fame…mah, sinceramente a me la mette!)
Superato il monte delle Petrose (quando si dice la fantasia al potere: Rio Petroso, Mulino delle Petrose, Case Petrose, Fosso delle Petrose, Monte delle Petrose, Maestà delle Petrose…) il sentiero entra nel suo tratto più spettacolare: siamo nel tratto delle marne lunari! La visuale è superba e si avanza sotto il sole battente ignorando le deviazioni per i due mulini fino ad una grossa casa che preannuncia l’arrivo al centro della Parrocchia con la scuola e la chiesa di San Biagio. Il bel campanile a vela è crollato alcuni anni fa, tuttavia la chiesa è ancora affascinante con la bella nicchia pitturata di azzurro. In primavera, nella scarpata dietro alla chiesa, le giunchiglie in fiore fanno riaffiorare in me ricordi liceali legati alla poesia di Wordsworth. Mi stupisco da solo delle mie reminiscenze che si meriterebbero un bel sorso di qualcosa… cerca cerca nello zaino ma ho esaurito tutto, acqua a parte, e mi tocca accontentarmi di questa.
Il sentiero si è trasformato in una larga strada che in salita arriva al piccolo cimitero di Rio Petroso, costruito negli ultimi anni del 1800; penso alla fatica di quelli che accompagnavano fin quassù i propri defunti, ma era gente abituata alla fatica e sicuramente non era questo a spaventarli. Personalmente sono stanco, il sole è lontano e non picchia più come alcune ore prima. In breve raggiungo il punto panoramico da dove mi sono affacciato questa mattina ad inizio giro e mi riposo.
Sono proprio soddisfatto del mio trekking e spero lo siate anche voi! Mi perdonerete alcuni sconfinamenti nell’adiacente parrocchia di Poggio alla Lastra ma con questo caldo un tuffo ci stava proprio!

Rio Salso, la parrocchia sconosciuta

Iniziamo il nostro “viaggio ideale” da una delle parrocchie meno conosciute del Comune di Bagno di Romagna: Rio Salso. Dalla piazza centrale del paese di San Piero in Bagno (piazza Salvador Allende) prendiamo l’auto e ci spostiamo verso “Somalborg”, uno dei più antichi rioni di San Piero (notare la bella chiesina seicentesca di San Giovanni). Si prosegue fino a superare il ponte sul Rio; qui finisce San Piero “città” ed inizia la campagna… Una strada tortuosa si inerpica lungo il monte seguendo le indicazioni per “Paganico” (piccola frazione del nostro comune, che tuttavia non dobbiamo raggiungere tenendo la destra al bivio). Arriviamo ad una bella casa con stalla (le Vetrice) dell’amico e compagno di tante escursioni Claudio Nigi; qui termina la strada asfaltata e si prosegue su strada bianca ghiaiata… Un simpatico cagnolino (o cagnolina…non abbiamo controllato!) si unisce a noi. In compagnia del nostro nuovo amico proseguiamo lungo la carrabile che a tratti offre bellissimi panorami in direzione del monte Comero. Superiamo Fontabate, fino a qualche anno fa locanda, ed in breve arriviamo alla vetta dove due sbarre impediscono alle auto di proseguire. Allacciamo gli scarponi e ci mettiamo in cammino prendendo il largo sentiero di sinistra che abbandoniamo presto in favore di una larga pista che si stacca in discesa alla nostra destra. Stiamo già camminando da almeno 5 minuti, è ora di una pausa…con la scusa di allacciare meglio lo scarpone lento, appoggiamo lo zaino a terra tirando fuori la piccola fiaschetta di grappa per il primo sorso della giornata. Il panorama che si gode da questo punto è fantastico, davanti a noi si ammira l’intera vallata di Rio Salso, una parrocchia tra le meno popolose tra quelle che vi porteremo a conoscere in queste settimane. L’inospitalità di questa remota plaga appenninica (incassata tra i monti Cocleto, Riccio e Castelluccio) è intuibile a primo acchito: Rio Salso fu tra le prime parrocchie ed essere abbandonate dal massiccio esodo rurale del secondo dopoguerra. Se in altre zone l’esodo si protrasse fino ai primi anni ’70, Rio Salso all’inizio “dei favolosi anni ’60” era già una parrocchia fantasma o lo sarebbe divenuta a breve (l’ultimo parroco residente, Don Romano Serafini, partì nell’Ottobre del ’62… i suoi ricordi sono affidati alle pagine del libro che lui stesso scrisse, poche pagine capaci di darci la struggente immagine di una Rio Salso ormai deserta). Riprendiamo a scendere lungo la strada che si fa mano a mano più infrascata; piantate di ontani fittonano le scarpate alla nostra destra, mentre sul terreno abbondano le impronte dei tanti ungulati qui presenti. Arriviamo così alla prima casa: la Vastura (Valcitura sulle carte), l’edificio è magnifico ed ancora in discrete condizioni, le stalle con bellissimi archi meritano una pausa… ed una gonzata di grappa alla memoria di quegli abili mastri scalpellini che li costruirono. La zona è talmente bella che verrebbe voglia di fermarsi qui… ma il nostro amico a quattro zampe ci chiama dal pioppo poco più avanti, invitandoci a proseguire… Un altro chilometrino circa ed eccoci a Tasnaia (Tassinaia), i cui ruderi raccontano un episodio di cronaca nera consumatosi quasi un secolo fa, in un freddo febbraio… C’è chi dice che tra queste poche pietre si aggiri ancora il fantasma dello sventurato sposo… Un po’ per scaramanzia tiriamo fuori la grappa e brindiamo alla salute della povera anima del giovane! Il sentiero qui si fa più intricato, chiuso in parte da piante di ginepro e prugnolo selvatico che sbucazzano le gambe e le braccia; non ce ne curiamo più di tanto e finalmente usciamo allo scoperto in una radura con un piccolo fosso in piena da guadare ed in breve arriviamo al nucleo di Pian della Noce. Fino a pochi lustri orsono la casa principale dava sfoggio della propria magnificenza ed un grande camino poteva essere acceso per riscaldarsi. I ricordi fluttuano nella mia mente… un brindisi ai tempi andati è d’obbligo prima di ripartire confortati da una piccola maestà che ci indica il cammino. Lasciamo la traccia principale per dirigerci al vecchio mulino (ho sempre avuto una passione per i mulini, immaginandoli come i cuori pulsanti di queste comunità: quando il ritrecine del mulino ha smesso di girare, poco dopo la comunità è morta…come se il cuore avesse smesso di pulsare). La pioggia mista a neve nel frattempo si è fatta più violenta e l’orologio della mia panza dice che il mezzodì è già passato da un pezzo… Nel mondo ci sono tante gioie, ed ognuno di voi avrà le sue… datemi pure del poro sciagurato, ma per me affettare salame e sbocciare del rosso nel carcerario di un mulino abbandonato quasi settant’ anni fa, o giù di lì, è tanta roba! Sarà l’emozione datami dal mulino, oppure il vino (la bottiglia aperta non poteva mica essere richiusa…) ma inizio ad avere caldo; per fortuna il fosso in piena mi costringe a togliere gli scarponi per guadare…in pochi istanti la temperatura corporea ritorna come per magia a livelli ottimali! Un altro guado poco più avanti ci permette di ritornare in breve sul sentiero principale nei dintorni di Val d’Acero, altra bella casa della quale si intuiscono ancora i caratteristici tetti spioventi. Vorremo fermarci ma dinnanzi a noi si vede già il severo campanile a vela della chiesa di san Salvatore che ci chiama a sé; le campane non sono più in sede da un pezzo, ma con un po’di immaginazione non è difficile tornare indietro di qualche decennio, quando nelle afose domeniche estive, il loro scampanare chiamava a raccolta i fedeli che si accalcavano sul sagrato della chiesa, contendendosi l’ombra che la già allora l’ anziana quercia proiettava all’intorno. Scendiamo ed in poco tempo arriviamo nell’aia dove finalmente incontriamo alcuni edifici in buone condizioni: si tratta della Casa Nuova e del Palazzo Giannelli, ovvero il centro della parrocchia. Il grande forno ci offre riparo, qui mi fermo alcuni minuti per asciugarmi e per un pezzetto di cioccolata accompagnata da un sorso di grappa….la fiaschetta “piange”… siamo agli sgoccioli… anche il mio fedele amico a quattro zampe che mi segue dalla partenza si lamenta, in effetti non ha mangiato nulla… e va beh, un pezzetto di cioccolata la do anche a lui… si lo so che la cioccolata fa male ai cani ma che credete che una bottiglia di vino ed una fiaschetta di grappa facciano bene ai cristiani?… comunque lui pare apprezzare… Ripartiamo in salita girando in breve a sinistra per andare a porgere un saluto nell’unico posto dove ancor oggi risiedono i risalsini: il cimitero. Della costruzione databile fine ‘800 rimane poco… ma una prece alla memoria di chi qui riposa ci scappa ugualmente. Rientriamo sui nostri passi sotto la pioggia battente che nel frattempo si è fatta neve abbondante, optando per il comodo, anche se un po’ noioso, stradone bianco che in alcuni chilometri ci riporta alla macchina. Superiamo i ruderi della Villa della quale ancora si intuisce la grandezza ed il cui nome riporta alla mente fasti ormai perduti; Frassineta, bella casa restaurata, ed infine sfioriamo i Sabiun (Sabbioni) edificio molto particolare e suggestivo che occhieggia alcune decine di metri in basso a destra sotto di noi. Giungiamo così al parcheggio; è il momento di salutare il nostro compagno di escursione pelosetto e di dare l’arrivederci al popolo di Rio Salso… e quale miglior commiato possibile se non quello di don Serafini al quale cediamo la parola: “Le nevicate erano abbondanti e bloccavano tutto. La vita si paralizzava. Il silenzio dominava la valle. Solo i camini fumanti indicavano la presenza umana […] dal punto di vista spirituale ero soddisfatto della comunità; ma c’era un problema che assillava l’anima: lo SPOPOLAMENTO [mi venivano a salutare; facevo loro gli auguri per la nuova sistemazione, ma era triste vederli partire con muli o cavalli carichi di masserizie, sedie, pentole e casse Pareva che partisse, un po’ alla volta, il proprio cuore. Così, dopo qualche mese, quelle case mostravano l’erba sulle soglie, le porte spalancate, le finestre aperte, come nudi teschi, residui di una vita che fu. Rio Salso era ormai un villaggio completamente abbandonato; perfino il grande palazzo padronale dei Giannelli era vuoto. Solo la chiesa era ancora funzionante per le famiglie rimaste nella zona. Talvolta mi affacciavo sulla soglia di qualche abitazione, contemplavo le cose rimaste: qualche rudimentale giocattolo, il grande focolare annerito, qualche vestito stracciato. E meditavo. Ecco che cosa resta dell’uomo: fatiche, amori, sogni… poi il tempo tutto annienta e livella, come un vento che cancella le orme sulla sabbia […] comprendevo che piano, piano, in due o tre anni la parrocchia si sarebbe esaurita.”