Rio Salso, la parrocchia sconosciuta
Iniziamo il nostro “viaggio ideale” da una delle parrocchie meno conosciute del Comune di Bagno di Romagna: Rio Salso. Dalla piazza centrale del paese di San Piero in Bagno (piazza Salvador Allende) prendiamo l’auto e ci spostiamo verso “Somalborg”, uno dei più antichi rioni di San Piero (notare la bella chiesina seicentesca di San Giovanni). Si prosegue fino a superare il ponte sul Rio; qui finisce San Piero “città” ed inizia la campagna… Una strada tortuosa si inerpica lungo il monte seguendo le indicazioni per “Paganico” (piccola frazione del nostro comune, che tuttavia non dobbiamo raggiungere tenendo la destra al bivio). Arriviamo ad una bella casa con stalla (le Vetrice) dell’amico e compagno di tante escursioni Claudio Nigi; qui termina la strada asfaltata e si prosegue su strada bianca ghiaiata… Un simpatico cagnolino (o cagnolina…non abbiamo controllato!) si unisce a noi. In compagnia del nostro nuovo amico proseguiamo lungo la carrabile che a tratti offre bellissimi panorami in direzione del monte Comero. Superiamo Fontabate, fino a qualche anno fa locanda, ed in breve arriviamo alla vetta dove due sbarre impediscono alle auto di proseguire. Allacciamo gli scarponi e ci mettiamo in cammino prendendo il largo sentiero di sinistra che abbandoniamo presto in favore di una larga pista che si stacca in discesa alla nostra destra. Stiamo già camminando da almeno 5 minuti, è ora di una pausa…con la scusa di allacciare meglio lo scarpone lento, appoggiamo lo zaino a terra tirando fuori la piccola fiaschetta di grappa per il primo sorso della giornata. Il panorama che si gode da questo punto è fantastico, davanti a noi si ammira l’intera vallata di Rio Salso, una parrocchia tra le meno popolose tra quelle che vi porteremo a conoscere in queste settimane. L’inospitalità di questa remota plaga appenninica (incassata tra i monti Cocleto, Riccio e Castelluccio) è intuibile a primo acchito: Rio Salso fu tra le prime parrocchie ed essere abbandonate dal massiccio esodo rurale del secondo dopoguerra. Se in altre zone l’esodo si protrasse fino ai primi anni ’70, Rio Salso all’inizio “dei favolosi anni ’60” era già una parrocchia fantasma o lo sarebbe divenuta a breve (l’ultimo parroco residente, Don Romano Serafini, partì nell’Ottobre del ’62… i suoi ricordi sono affidati alle pagine del libro che lui stesso scrisse, poche pagine capaci di darci la struggente immagine di una Rio Salso ormai deserta). Riprendiamo a scendere lungo la strada che si fa mano a mano più infrascata; piantate di ontani fittonano le scarpate alla nostra destra, mentre sul terreno abbondano le impronte dei tanti ungulati qui presenti. Arriviamo così alla prima casa: la Vastura (Valcitura sulle carte), l’edificio è magnifico ed ancora in discrete condizioni, le stalle con bellissimi archi meritano una pausa… ed una gonzata di grappa alla memoria di quegli abili mastri scalpellini che li costruirono. La zona è talmente bella che verrebbe voglia di fermarsi qui… ma il nostro amico a quattro zampe ci chiama dal pioppo poco più avanti, invitandoci a proseguire… Un altro chilometrino circa ed eccoci a Tasnaia (Tassinaia), i cui ruderi raccontano un episodio di cronaca nera consumatosi quasi un secolo fa, in un freddo febbraio… C’è chi dice che tra queste poche pietre si aggiri ancora il fantasma dello sventurato sposo… Un po’ per scaramanzia tiriamo fuori la grappa e brindiamo alla salute della povera anima del giovane! Il sentiero qui si fa più intricato, chiuso in parte da piante di ginepro e prugnolo selvatico che sbucazzano le gambe e le braccia; non ce ne curiamo più di tanto e finalmente usciamo allo scoperto in una radura con un piccolo fosso in piena da guadare ed in breve arriviamo al nucleo di Pian della Noce. Fino a pochi lustri orsono la casa principale dava sfoggio della propria magnificenza ed un grande camino poteva essere acceso per riscaldarsi. I ricordi fluttuano nella mia mente… un brindisi ai tempi andati è d’obbligo prima di ripartire confortati da una piccola maestà che ci indica il cammino. Lasciamo la traccia principale per dirigerci al vecchio mulino (ho sempre avuto una passione per i mulini, immaginandoli come i cuori pulsanti di queste comunità: quando il ritrecine del mulino ha smesso di girare, poco dopo la comunità è morta…come se il cuore avesse smesso di pulsare). La pioggia mista a neve nel frattempo si è fatta più violenta e l’orologio della mia panza dice che il mezzodì è già passato da un pezzo… Nel mondo ci sono tante gioie, ed ognuno di voi avrà le sue… datemi pure del poro sciagurato, ma per me affettare salame e sbocciare del rosso nel carcerario di un mulino abbandonato quasi settant’ anni fa, o giù di lì, è tanta roba! Sarà l’emozione datami dal mulino, oppure il vino (la bottiglia aperta non poteva mica essere richiusa…) ma inizio ad avere caldo; per fortuna il fosso in piena mi costringe a togliere gli scarponi per guadare…in pochi istanti la temperatura corporea ritorna come per magia a livelli ottimali! Un altro guado poco più avanti ci permette di ritornare in breve sul sentiero principale nei dintorni di Val d’Acero, altra bella casa della quale si intuiscono ancora i caratteristici tetti spioventi. Vorremo fermarci ma dinnanzi a noi si vede già il severo campanile a vela della chiesa di san Salvatore che ci chiama a sé; le campane non sono più in sede da un pezzo, ma con un po’di immaginazione non è difficile tornare indietro di qualche decennio, quando nelle afose domeniche estive, il loro scampanare chiamava a raccolta i fedeli che si accalcavano sul sagrato della chiesa, contendendosi l’ombra che la già allora l’ anziana quercia proiettava all’intorno. Scendiamo ed in poco tempo arriviamo nell’aia dove finalmente incontriamo alcuni edifici in buone condizioni: si tratta della Casa Nuova e del Palazzo Giannelli, ovvero il centro della parrocchia. Il grande forno ci offre riparo, qui mi fermo alcuni minuti per asciugarmi e per un pezzetto di cioccolata accompagnata da un sorso di grappa….la fiaschetta “piange”… siamo agli sgoccioli… anche il mio fedele amico a quattro zampe che mi segue dalla partenza si lamenta, in effetti non ha mangiato nulla… e va beh, un pezzetto di cioccolata la do anche a lui… si lo so che la cioccolata fa male ai cani ma che credete che una bottiglia di vino ed una fiaschetta di grappa facciano bene ai cristiani?… comunque lui pare apprezzare… Ripartiamo in salita girando in breve a sinistra per andare a porgere un saluto nell’unico posto dove ancor oggi risiedono i risalsini: il cimitero. Della costruzione databile fine ‘800 rimane poco… ma una prece alla memoria di chi qui riposa ci scappa ugualmente. Rientriamo sui nostri passi sotto la pioggia battente che nel frattempo si è fatta neve abbondante, optando per il comodo, anche se un po’ noioso, stradone bianco che in alcuni chilometri ci riporta alla macchina. Superiamo i ruderi della Villa della quale ancora si intuisce la grandezza ed il cui nome riporta alla mente fasti ormai perduti; Frassineta, bella casa restaurata, ed infine sfioriamo i Sabiun (Sabbioni) edificio molto particolare e suggestivo che occhieggia alcune decine di metri in basso a destra sotto di noi. Giungiamo così al parcheggio; è il momento di salutare il nostro compagno di escursione pelosetto e di dare l’arrivederci al popolo di Rio Salso… e quale miglior commiato possibile se non quello di don Serafini al quale cediamo la parola: “Le nevicate erano abbondanti e bloccavano tutto. La vita si paralizzava. Il silenzio dominava la valle. Solo i camini fumanti indicavano la presenza umana […] dal punto di vista spirituale ero soddisfatto della comunità; ma c’era un problema che assillava l’anima: lo SPOPOLAMENTO [mi venivano a salutare; facevo loro gli auguri per la nuova sistemazione, ma era triste vederli partire con muli o cavalli carichi di masserizie, sedie, pentole e casse Pareva che partisse, un po’ alla volta, il proprio cuore. Così, dopo qualche mese, quelle case mostravano l’erba sulle soglie, le porte spalancate, le finestre aperte, come nudi teschi, residui di una vita che fu. Rio Salso era ormai un villaggio completamente abbandonato; perfino il grande palazzo padronale dei Giannelli era vuoto. Solo la chiesa era ancora funzionante per le famiglie rimaste nella zona. Talvolta mi affacciavo sulla soglia di qualche abitazione, contemplavo le cose rimaste: qualche rudimentale giocattolo, il grande focolare annerito, qualche vestito stracciato. E meditavo. Ecco che cosa resta dell’uomo: fatiche, amori, sogni… poi il tempo tutto annienta e livella, come un vento che cancella le orme sulla sabbia […] comprendevo che piano, piano, in due o tre anni la parrocchia si sarebbe esaurita.”
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